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 2025  dicembre 07 Domenica calendario

Eugenio Finardi: "Sono stato un bambino solo, mia madre era una cantante lirica e se stonavo erano guai"

Sono passati cinquant’anni da quando il rock italiano scoprì Eugenio Finardi. L’album di debutto si intitolava Non gettate alcun oggetto dal finestrino ed era prodotto, oltre che dallo stesso musicista milanese, anche da Alberto Camerini. Era l’aprile del 1975 e a quel disco collaborò pure Franco Battiato con lo pseudonimo di Franc Jonia. Mezzo secolo dopo, Finardi è ancora in tour. Lui si è imbiancato, le sue canzoni no.
Le piace essere chiamato Maestro?
«Prima mi imbarazzava, perché non sono nemmeno diplomato al conservatorio, poi però è successo che un direttore d’orchestra qual è Carlo Boccadoro mi abbia detto che sono davvero un Maestro: “Perché hai creato un genere musicale e poi lo hai insegnato”, le sue parole. Effettivamente sono tantissimi i musicisti, i session man, che sono passati prima da me. Ora che mi sto avvicinando agli 80, voglio però essere venerabile maestro».
Saltando la fase “solito stronzo”?
«Ma va, quella è durata 45 anni».

Non le chiedo di ripercorrere la carriera perché ci vorrebbe un film, ma sintetizzando all’estremo, se si volta indietro vede più luci o più ombre?
«Dipende. A livello di business, se uno la guarda con l’ottica di un bocconiano, ho fallito. Se invece lo sguardo è quello di uno studente di letteratura o di storia contemporanea, allora forse sono stato più rilevante di quanto mi sia riconosciuto».
Da molti addetti ai lavori e dai musicisti però il riconoscimento c’è stato…
«I musicisti capiscono la ricerca, la crescita. I fan invece li ho sempre spiazzati, cambiando genere ogni due dischi. Ho conquistato un’ampia fascia di rispetto, ma di fan duri e puri ne avrò una trentina o una quarantina... Non ho quei fan che guai a criticare il loro idolo. Ho continuato a cambiare, ottenendo la libertà dall’essere costretto a fare sempre la stessa cosa».
Sta portando dal vivo non uno ma tre spettacoli diversi, come mai questa scelta?
«Perché mi annoio. Uno è un lavoro teatrale, anche divertente, poi c’è quello con la full band, il concerto a pieno volume. Il terzo spettacolo è quello più intimo, voce e chitarra, per luoghi più raccolti. E siccome io non suono più la chitarra, ad accompagnarmi c’è Giovanni Giuvazza Maggiore».
A mio parere, la vera forza di una canzone è la sua capacità di resistere al tempo. Direi che è una sfida che lei ha vinto più di una volta, ma tra i suoi grandi successi ce n’è uno che lei vede come capofila? La canzone che si alza sui pedali e va in fuga?
«Extraterrestre, è lei la più amata dal pubblico. Quando uscì nel ’78 fu radiofonicamente un successo, ma nel mio ambiente venne considerata un tradimento. Sul Lato B di quel 45 giri c’era Cuba. Cantavo “È che viviamo in un momento di riflusso / E ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso / Che tutto quel cantare sul cambiar la situazione / Non sia stato che un sogno o un’illusione”. Solo un anno e mezzo dopo è uscita la copertina di Panorama, quella di Altan con Cipputi con l’ombrello nel culo e scritto “è arrivato il riflusso”. Quel disco fu un insuccesso ma presagiva quello che sarebbe successo. A parte gli Anni 80 dove sono stato quasi completamente scollato, fuori sincrono – era nata Elettra ed è stato forse il periodo più buio della mia vita -, nella mia carriera ho fatto un sacco di cose per primo. Sia dal punto di vista sonoro che nei testi… sento l’aria che tira».
La musica è ancora ribelle?
«Non lo so, c’è anche una musica che si ribella alle convenzioni in modo originale, ma tutto è diventato industria. Anche il rap, che era nato con come musica ribelle, ormai è mainstream».
A Splendida Cornice, su Rai 3, ha detto che il periodo dei suoi primi successi somiglia a questi nostri tempi: è un parallelo che a me non sarebbe mai venuto in mente. Cosa vede in comune?
«Siamo alla fine di un ciclo, oggi come allora. All’epoca eravamo al termine degli anni del boom, all’inizio di una grossa crisi che poi sfociò negli Anni 80 nella fine del mito del socialismo. Dice il mio caro amico ferramenta, che è cresciuto nelle case popolari a Milano, che un tempo lì erano tutti uguali, le porte erano aperte, erano una grande famiglia. Poi tutto è finito. E sai perché? – mi dice – Perché le case ce le hanno vendute e siamo diventati padroni».
Per metà lei è americano, che giudizio dà dell’America di oggi?
«Siamo all’impazzimento, c’è Trump, ragazzi, ma ci rendiamo conto? Faticavo a capire come fosse stata possibile la caduta dell’Impero romano. Ora lo so, crolla tutto quando la realtà non è più una. Se si comincia a parlare di verità alternativa, come fanno Trump e i suoi, significa che non c’è più un centro di gravità permanente. La società occidentale è in grande crisi. Come dice il professor Barbero, siamo in un momento molto simile alla Belle Époque, che poi è sfociato nella guerra mondiale. Stiamo da Dio ma siamo convinti di essere in pericolo. Confido che l’intelligenza artificiale ci impedirà di distruggerci».
È per questo che il mondo va a destra?
«La destra è conservatorismo e primato della forza. Di ogni tipo, da quella economica alla violenza fisica: chi è forte ha il diritto di comandare, escludendo gli ultimi. La sinistra è invece l’apertura agli ultimi, è mettere un tetto a quanta ricchezza si può accumulare. Il problema è che da entrambe le parti si può esagerare. Ma ormai la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi. Noi non vedevamo l’ora che arrivasse il futuro e, alla fine, stiamo vivendo il mondo tecnologico che sognavamo. Ma i ragazzi di oggi? Questa generazione il futuro lo teme, non lo sogna. Le racconto un aneddoto su mio padre…».
Prego.
«I miei genitori vivevano a New York. Due settimane dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, quando hanno riaperto i voli, sono andato là con mio figlio per vedere come stavano. Anche se loro, vivendo vicino a Central Park non erano stati interessanti direttamente dal crollo delle Torri Gemelle. Insieme andammo a vedere le rovine ancora fumanti. Io cinquantenne, mio figlio di 12 anni e mio padre, che ne aveva 93 e sarebbe morto due anni dopo. Eravamo vicino alla rete con tutti i bigliettini davanti alle macerie. Ci fu un momento di silenzio, poi mio padre disse: “A questo dovrete pensarci voi”. Io è un po’ così che mi sento adesso».
Oggi il protagonista della sua canzone chiederebbe all’extraterrestre di essere riportato a casa?
«Sì, perché se parli di grandi sistemi, di Stati, è un casino, ma quando giro l’Italia incontro ancora tanta umanità. La maggioranza è composta da brava gente».
In un’intervista alla RSI ha detto con gli occhi lucidi: “Se rinascessi, vorrei non avere bisogno di diventare Finardi per credere in me stesso”. Da cosa nasce quella commozione?
«Mia mamma – cantante lirica – mi amava quando cantavo, ma se stonavo… Non è stato facile. Da bambino mi sono sentito molto solo e insicuro. Tutti erano profondamente italiani o americani, io no, ho sempre avuto la sensazione di non essere come gli altri. È una sensazione che mi accomuna a molti colleghi che si sentivano diversi. Ho scelto un mestiere in cui apro la mia anima agli altri».
Come è noto, Elettra è Down, oggi verso i bambini Down c’è un’attenzione che non c’era nel 1982. Almeno qui siamo migliorati?
«L’accettazione dell’handicap è stata una conquista straordinaria: una società si giudica da come tratta i suoi disabili. Oggi non è più causa di imbarazzo, lo stigma non c’è più, ma mancano le istituzioni, gli aiuti per le famiglie. Rispetto a quando Elettra era bimba gli insegnanti di sostegno sono diventati rarissimi e spesso impreparati».