La Stampa, 7 dicembre 2025
Gemma De Angelis Testa: "Pippo, il Caballero e i sogni di Mondrian Con Armando la vita era un’avventura"
«Ho conosciuto Armando nel 1970, all’epoca era già famoso. Mi diceva sempre che prima poteva andare al cinema a Torino con la sua prima moglie, senza essere riconosciuto. Invece poi la gente lo fermava per strada, ma credo che il successo lo entusiasmava». Gemma De Angelis Testa, seconda moglie del pubblicitario più iconico e famoso d’Italia, oltre che pittore, disegnatore e animatore, apre lo scrigno dei ricordi mentre al Palazzo delle Papesse a Siena apre la mostra con tante opere di Armando Testa, fino al 3 maggio. Il sottotitolo è un jingle per bambini, “Cucù-Tetè”, all’ingresso del Palazzo una riproduzione dell’ippopotamo Pippo, il testimonial dei pannolini Lines.
Il suo primo successo fu la campagna per le Olimpiadi di Roma?
«No, quello venne molto più tardi. Nel 1937 vinse il suo primo concorso con il manifesto per la Ici. Nacque perché Armando sognò Mondrian, che gli diceva “less is more”. E lui creò quell’origami giallo, bianco e rosso per l’industria di colori. Poi venne la guerra che interruppe il lavoro, ma non la sua arte. Da militare doveva tracciare il puntamento per le mitragliatrici. Lui approfittava dei momenti di pausa per disegnare i commilitoni. Alla fine della guerra aprì un piccolo studio a Torino. La culla dell’agenzia che oggi è tra le più importanti in Europa».
Il suo periodo d’oro furono gli anni ’50 e ’60, con la creazione delle sue pubblicità iconiche…
«In quel periodo Armando lanciò le campagne per Carpano, Saiwa, Cinzano, poi arrivarono Lines e gli altri marchi».
Lei parla di marchi, ma erano storie e personaggi che rimandavano ai prodotti. Come nacque l’idea di Pippo l’ippopotamo?
«Voleva dare l’idea di morbidezza per lanciare i pannolini. All’epoca frequentava Piero Gilardi, artista di Torino famoso per i suoi Tappeti Natura e per aver fondato il Parco d’Arte Vivente. Gilardi gli consigliò di usare il poliuretano espanso per il suo personaggio. Il primo Pippo era solo una faccia, poi diventò un ippopotamo. Non è un animale mansueto, è ferocissimo. Armando lo trasformò, con gli occhioni e la bocca sorridente, in un cucciolo tenerone. Per far muovere il Pippo di poliuretano servivano due uomini, uno davanti e uno dietro, che si facevano tanti scherzi tra loro».
L’arte di Armando Testa crebbe parallelamente all’ascesa della televisione?
«Negli anni ’60 arrivarono i grandi committenti e nacquero le pubblicità televisive. Ma lui era un artista completo, abbracciava tutte le forme d’arte, dalla grafica alla pittura, dal cinema alla fotografia».
Nel caso dei pannelli di formica stile Mondrian, lui disse che “un quadro può permettersi di essere superfluo e capito da pochi, la pubblicità invece deve essere immediatamente capita da tutti”.
«Lui comunicava arte in ogni cosa che faceva. Pensi alla pubblicità Saiwa, con quel treno di uomini che correvano in sincronia sulla neve. Il secondo Carosello fu la storia di due persone che litigano in una stanza chiusa, con la lite che si chiude con la frase “Ma sa che io la suono?”. Il terzo episodio non fu accettato da Saiwa: Armando inventò uno spot con un ristorante vuoto e un cameriere zoppo che si avvicinava. Il cliente a quel punto disse basta. Non accettò l’eccesso di surrealismo».
Come ebbe l’idea del personaggio di Caballero per il caffè Paulista?
«Doveva esaltare il più possibile il prodotto. Caballero si trasformava in Paulista alla fine del corteggiamento di Carmencita. In quegli anni non si poteva parlare del prodotto se non alla fine dello spot, Armando invece trasformò il caffè in sinonimo di Paulista dall’inizio. Fu un successo strepitoso».
La grande differenza rispetto a oggi sta proprio qui: prima era la storia la protagonista dello spot, il prodotto era l’appendice. Oggi invece è il prodotto, la storia è un orpello, spesso anche insulso.
«Le grandi aziende chiedevano aiuto ad Armando per vendere i loro prodotti, perché erano sicure che il suo genio avrebbe fatto decollare i fatturati con le sue storie originali e quei personaggi senza braccia e piedi come Caballero, Carmencita e Papalla. Poi arrivò il marketing e cambiò tutto».
Il pianeta Papalla era la pubblicità della Philco, un’azienda di elettrodomestici che non esiste più.
«A guardarlo ora trovi tanta innovazione in Papalla. In uno spot una donna del pianeta, tutta tonda, chiede a un computer di trovarle il marito ideale, dandogli le caratteristiche, l’età e altri dettagli».
Le campagne di Armando Testa fecero crescere tante piccole imprese.
«Paulista ora ha lasciato spazio a Lavazza, il brand dell’azienda. Così come Punt e Mes che è stato superato da altri aperitivi. Il logo esiste ancora, fu comprato da Fernet Branca. Aveva quei disegni sul punto e mezzo nel cassetto, in una vetrina a San Francisco vide una bambola giapponese che gli fece scattare l’idea della campagna iconica. Pirelli è diventata leader mondiale degli pneumatici anche grazie alla carica di elefanti con la ruota dietro la proboscide ideata da Armando».
Qual è stata la sua ultima campagna pubblicitaria di successo?
«Ricordo i manifesti per Azzurra e la Coppa America di vela. Ma anche le tante campagne sociali, per Unicef e la campagna contro l’abrogazione del divorzio con le due dita inchiodate a forma di croce».
Com’era la vostra vita di coppia a Torino?
«Andavamo a piedi da casa allo studio, abitavamo nel quartiere della Gran Madre, la zona residenziale di Torino, e anche l’agenzia era lì. Durante il tragitto Armando parlava con tutti, in tanti lo fermavano. Da tutti prendeva qualcosa, assorbiva un’idea».
E a casa quando eravate soli?
«Disegnava sempre mentre parlava, molti schizzi li ho conservati. La quotidianità esisteva ma in senso creativo. Eravamo a pranzo e lui decantava la forma del cucchiaio, diceva che era un autoritratto, i bicchieri si trasformavano in cattedrali. Persino andare con lui al supermercato diventava un’avventura».