La Stampa, 7 dicembre 2025
I fantasmi di Trieste
Piazza Unità d’Italia, Trieste: tripudio di luci e alberi di Natale. Novecento metri più in là, i magazzini del Porto vecchio. Nessuna luce, niente stelle natalizie. Più di cento persone cercano di dormire nonostante il forte vento che scende dal Carso. Nonostante il cattivo odore e lo squittio dei topi.
Sono migranti, arrivati dalla famigerata rotta balcanica fino a Trieste, in attesa di essere ricevuti dalle autorità italiane. «Torna domani» è quello che tutti i giorni si sentono dire dalla Questura, dove si presentano appena arrivati, anche a costo di stare in fila per ore. Per qualcuno quel domani si trasforma in mesi, passati senza un posto in cui dormire se non gli umidi silos del porto. Circa novanta di loro, settimana scorsa, sono stati «trasferiti» con lo sgombero di uno di questi edifici. Nella struttura accanto, in silenzio, ha invece perso la vita Hichem Billal, 32enne algerino arrivato a Trieste sei mesi fa. Quando l’hanno trovato era già morto da ore per il freddo. «Era venuto più volte a farsi medicare da noi volontari: estremamente vulnerabile, era totalmente consumato nel corpo. Mi parlava della moglie e del suo bambino», racconta Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra, che dal 2019 sostiene i migranti che arrivano in città.
Hichem è la quarta vittima delle basse temperature nel giro di pochi giorni in Friuli-Venezia Giulia. Due uomini pakistani, Nabi Ahmad di 35 anni e Muhammad Baig di 38, sono morti avvelenati dal monossido di carbonio a Udine mentre tentavano di scaldarsi con un fuoco alimentato da oggetti in plastica. Uno dei due aveva ricevuto l’invito a presentarsi per compilare la domanda di protezione internazionale. Shirzai Farhdullah, anche lui morto intossicato a Pordenone, aveva invece 25 anni e arrivava dall’Afghanistan. Tutti e tre fino a poco fa, prima di spostarsi a cercare aiuto in altre città della regione, facevano parte dei fantasmi dei magazzini di Trieste.
Noman, kashmiro che vive da due anni in Italia, conosceva bene Shirzai. È stato lui a recitare in piazza il rito funebre in onore dei quattro morti per il freddo. Anche Noman ha dormito a Porto vecchio per mesi. Da quando ha ottenuto il permesso di soggiorno, però, ha scelto di aiutare gli altri: «Ora vivo in un appartamento con altre persone e lavoro come badante, ma so cosa significa sopravvivere in strada. Tutte le sere sono in piazza per distribuire coperte, scarpe e cappotti. Vado anche a cucinare per gli altri al porto, improvvisando una cena con quello che c’è: riso, farina, olio». Il giovane vuole restituire l’aiuto che gli è stato dato in passato. «Quando qualche tempo fa sono andato con gli altri volontari a fare un giro per le montagne vicine al confine – racconta -, mi sono inginocchiato per pregare accanto a una pozzanghera di fango. È stata quell’acqua sporca a salvarmi la vita durante la traversata».
Noman spiega che ogni giorno scopre che qualcuno durante la notte si è ammalato, ha una sospetta polmonite o non riesce nemmeno a muoversi per la febbre. Yousef, afghano che da cinque mesi si aggira nel porto, conferma che molti suoi «amici e fratelli migranti» soffrono l’essere continuamente esposti a pioggia e vento. La maggior parte di loro arriva da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Ma molti sono anche i curdi, dalla Turchia o dall’Iraq, e i nepalesi. «Il numero di persone che vivono nei magazzini varia tra i 180 e i 250. La politica cittadina, in modo scientifico, vuole demotivarli e indurli ad andarsene. Sono ridotti a non-persone, a subumani, costretti a vivere tra i topi», spiega Fornasir, «spesso l’unico modo di accedere al sistema di accoglienza è tramite sgombero. Molti implorano la polizia di prenderli, di portarli via con loro». Capita, però, che chi viene trasferito si ritrovi ancora più isolato: molti finiscono in Sardegna, in case abbandonate all’interno dell’isola e lontane dai grandi centri abitati, dove è difficile anche solo frequentare un corso di italiano. Gli ultimi sgomberati verranno invece portati in Toscana.
Il rischio di essere mandati fuori dall’Italia, però, è ancora più grande. Lo spiega Fornasir: «Un tempo curavo vesciche e piedi devastati, oggi mi ritrovo davanti corpi pieni di cicatrici, ossa rotte, nasi spaccati, timpani saltati. I migranti che percorrono la rotta balcanica sono sistematicamente torturati. E chi è respinto è destinato a subire altri abusi»