La Stampa, 6 dicembre 2025
Intervista a Nicola Legrottaglie
Il primo allenatore di Nicola Legrottaglie non indossava la tuta di una squadra. La sua voce, a metà anni ‘80, arrivava da un balcone di una piazza di Mottola, nel Tarantino, e non per impartire indicazioni tattiche. «È stata mia madre a insegnarmi la prima lezione di vita e di calcio», racconta l’ex difensore nella sede milanese della Stampa. «Avevo dieci anni, giocavo su un campetto di cemento. Dopo un contrasto, per sentirmi grande, insultai un avversario. Mamma lo sentì dalle finestre di casa, mi fece salire. Una sberla, poi disse: “Ricordati, parole cattive danno vita a cattive situazioni"». Legrottaglie ha deciso di partire da qui per scrivere insieme ad Andrea Mercurio una raccolta di racconti incentrati sui «valori del calcio» (12 in campo, Giunti, pp. 169, euro 22,90) con protagonisti grandi calciatori e che si apre proprio con quel ricordo d’infanzia.
La sua famiglia?
«Papà ha lavorato una vita all’Ilva, mamma a 5 anni era già nei campi ad aiutare. A 52 si è ammalata: tumore al colon, operazioni, recidive, fino a quando è volata in cielo».
Il primo ricordo di una partita?
«A Mottola, in quella piazzetta sotto casa».
Quando ha capito che avrebbe fatto il calciatore?
«Ne sono sempre stato convinto. Crescevo, i miei amici diventavano poliziotti e operai, papà mi diceva: “Vuoi provare all’Ilva?”. Io insistevo: voglio giocare».
È sempre stato un difensore?
«Semmai ai primi tempi ho sempre fatto l’attaccante o il centrocampista. Poi, a 19 anni, l’allenatore della Pistoiese, Enrico Catuzzi, decise di farmi fuori dai titolari: per lui ero troppo alto, non potevo stare in mezzo al campo. Stavo per essere ceduto, ma la domenica prima della chiusura del mercato si trovò senza difensori. Mi disse: “Devi darmi una mano”. Giocai: migliore in campo. Restai».
Nei primi anni la chiamavano «il duca».
«Un soprannome dei tifosi del Modena: piaceva il modo in cui uscivo palla al piede e testa alta. Fu una grande stagione: dalla C alla B con Gianni De Biasi allenatore».
L’anno dopo – era il 2001 – passò al Chievo.
«Ci ero già stato, ed ero ancora in comproprietà, ma negli anni precedenti non avevo trovato spazio. Così, quando decisero di riscattarmi, non volevo andare. E invece…».
Invece, al primo anno di serie A, vi trovaste in Europa.
«Iniziarono a venire da tutto il mondo per vederci. Ci fossero stati i social, avremmo spaccato».
Il presidente era Luca Campedelli, in panchina c’era Luigi Delneri.
«Campedelli viveva le partite in modo molto emotivo: ogni volta, a fine gara, si sdraiava sfinito con la borsa del ghiaccio in testa».
E Delneri?
«Ha cambiato il nostro calcio grazie a un’idea di gioco rischiosa. In ogni allenamento, ci sottoponeva a 45 minuti di lavoro massacranti solo sulla fase difensiva».
Cosa gli è mancato per affermarsi come tecnico di un grande club?
«Forse un po’ più di elasticità e di pazienza. Il calcio è anche attenzione all’ambiente e alle risorse umane».
Con lui allenatore, lei arrivò in Nazionale.
«Nel 2002, grazie a Giovanni Trapattoni. Un mito, sembrava quasi un nonno: in ritiro, prima di andare a letto, passava in camera e parlava, parlava. Fino a quando, sfiniti, non ci addormentavamo».
L’anno dopo si trasferì alla Juve: nella prima foto ufficiale era in bermuda, maglietta e infradito.
«Ero in vacanza al mare, avevo già un accordo verbale con la Roma. Prima di firmare, il Chievo chiese al mio procuratore che parlassi con la Juventus. Mi dissero: parti adesso, anche in ciabatte. Mi trovai davanti Moggi, Giraudo e Bettega. Firmammo e insistettero subito per incontrare i giornalisti: quelle foto mi perseguitano da più di vent’anni».
Alla Juve, all’inizio, non andò bene: insieme a una Supercoppa italiana, arrivò anche il premio di «Bidone d’oro».
«E pensare che ero partito alla grande. Infornammo una sfilza di vittorie, poi in uno Juventus-Inter tentai un dribbling su Martins. Rubò palla, segnò, perdemmo 3 a 1. E diventò dura: sembrava che la colpa di ogni cosa fosse di Legrottaglie».
Andò via: in prestito al Bologna.
«Voluto da Mazzone, con la promessa di giocare per riconquistare la Nazionale. Durante l’analisi di una partita litigammo, mi fece terra bruciata. Restai fuori fino al ritorno dello spareggio salvezza col Parma. A due minuti dalla fine, dopo un errore di un compagno, rimasi spiazzato e lisciai la palla: schizzò sul ginocchio di Gilardino, il Parma segnò, il Bologna finì in B. Successe il finimondo, dovetti scappare in auto alle 4 del mattino».
Ripartì da Siena, dove si avvicinò all’associazione evangelica degli «Atleti di Cristo». La fede nel calcio l’ha aiutata?
«La fede aiuta sempre: è uno stile di vita, definisce le nostre scelte e la nostra identità».
Ha raccontato di aver praticato la castità per cinque anni prima di sposarsi.
«Una scelta, di cui si è già troppo parlato».
Grazie alla fede si riprese anche la Juve.
«Quando, nel 2011, andai via, le partite erano 154, i gol dieci. Mica male».
Tra i protagonisti del vostro libro c’è anche Alessandro Del Piero.
«Un leader tecnico: in campo era il migliore, ma non era il classico capitano onnipresente nello spogliatoio. Aveva l’intelligenza e l’equilibrio di lasciare la leadership anche ad altri».
A chi pensa?
«A Ciro Ferrara: un leader emotivo, quello che scherzava di più, e che con le sue battute era in grado di stemperare».
Dopo il ritiro ha fatto l’allenatore, a Pescara, e il dirigente, alla Sampdoria. Il futuro sarà in panchina o alla scrivania?
«Dipende. Ho studiato e sviluppato entrambe le competenze. Ma a due condizioni».
Quali?
«Il rispetto e la chiarezza. Lo sport, come raccontiamo nel libro, non è solo tattica, tecnica e allenamenti: è un insieme di valori che vanno conosciuti, vissuti e trasmessi».