Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 06 Sabato calendario

Il Dragone, l’industria e il mercato l’Europa paga il prezzo degli errori

Esattamente 24 anni fa l’11 dicembre del 2001 la Cina veniva ammessa nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Un’entrata non senza polemiche soprattutto negli Stati Uniti dove il Congresso per lungo tempo aveva nutrito seri dubbi sulla ammissione del Paese in assenza di una esplicita adesione ai principi della democrazia. Pesavano ancora, nell’opinione pubblica americana, il massacro di Piazza TienAnMen dove l’esercito cinese aveva represso con estrema violenza le dimostrazioni studentesche della primavera del 1989. Ma Clinton aveva insistito. Secondo il presidente americano l’ammissione di Pechino, avrebbe favorito, attraverso l’apertura commerciale, l’apertura democratica della Cina.
A 24 anni di distanza i conti di questo esperimento sono presto fatti e non sono quelli che Clinton aveva previsto. La Cina nel 2000 aveva il 4% del Pil mondiale e l’Unione europea intorno al 25%. Oggi la Cina ci ha raggiunto. Cina ed Europa rappresentano ciascuno circa il 17% del Pil mondiale. Gli Stati Uniti invece non hanno perso posizioni in modo apprezzabile. Erano vicini al 30% allora e sono intorno al 27% oggi.
Per quanto riguarda la quota della manifattura i confronti sono ancora più impietosi. Nel 2000, la quota cinese della manifattura globale era dell’ordine del 6–9%, mentre l’insieme di Usa e Ue si avvicinava al 50%. Nel 2023, la quota combinata Usa e Ue è scesa a poco più del 39%, mentre la Cina è salita a circa 29%.
Il prezzo dell’apertura dei mercati mondiali alla Cina lo ha dunque pagato in modo sproporzionato l’Europa.
Gli Stati Uniti hanno compensato la perdita della manifattura con una straordinaria espansione dei servizi ad alta tecnologia, mentre L’Europa per lungo tempo non ha percepito i rischi strategici che la crescita industriale cinese trascinata dalle esportazioni poneva. La politica ha guardato ai benefici di cui godevano i consumatori grazie all’accesso ai beni a basso costo che provenivano dalla Cina, allo straordinario saldo attivo della bilancia commerciale grazie all’esportazione di beni tecnologicamente sofisticati e l’industria si è accontentata di delocalizzare la manifattura per sfruttare gli enormi differenziali di costo tra le due aree.
Per i primi anni dieci del secolo la crescita della presenza europea in Cina è stata eccezionale: le imprese hanno trasferito prezioso know how e hanno accettato di condividere le loro iniziative con partners locali pur di accedere al vasto mercato di consumo cinese. In questo modo sono state trasferite in Cina le competenze per lo sviluppo di settori chiave come l’automobile, la chimica e le macchine.
Commettendo un grave peccato di arroganza le imprese europee hanno pensato che questi settori avrebbero continuato ad essere sotto il loro controllo. Invece con le competenze acquisite dagli europei, i cinesi hanno incominciato a sviluppare le loro industrie e ad innovare diventando in molti settori di gran lunga i produttori dominanti a livello mondiale. È così che più della metà dell’acciaio, del cemento e di molte materie plastiche è prodotta oggi in Cina. Ci siamo liberati, con grande plauso dell’opinione pubblica di produzioni inquinanti che possiamo importare a basso prezzo dalla Cina senza avere una strategia di lungo periodo. Il lungo periodo di pace di cui abbiamo goduto nel dopoguerra ci ha fatto pensare che il mondo fosse definitivamente cambiato in meglio, ma la guerra in Ucraina ci ha svegliato di soprassalto. Che cosa accadrebbe se, in un contesto di crisi internazionale, la Cina decidesse di bloccare le esportazioni di tanti altri prodotti strategici come ha fatto con le terre rare e i magneti permanenti in risposta alle tariffe di Trump? Dove troveremmo l’acciaio ma soprattutto dove troveremmo gli antibiotici dei quali la Cina produce il 40% del fabbisogno mondiale. E come potremmo continuare nella nostra costosa transizione ambientale senza la produzione cinese di tecnologie verdi.
Di fronte a queste sfide l’Europa si è mossa poco e tardi. Ha incominciato a prendere coscienza del cambiamento quando nel 2015 la Cina ha varato il piano industriale “Made in China 2025"che mira a trasformare la Cina in potenza tecnologica globale, ma il punto di svolta è arrivato solo alla fine del decennio con il regolamento 2019/452 che ha istituito per la prima volta un quadro normativo comune dell’Ue per il controllo degli investimenti esteri diretti da parte degli Stati membri. Un regolamento per il quale la Commissione ha proposto una revisione nel gennaio 2024 e sul quale il Parlamento europeo ha legiferato solo nel maggio 2025, lasciando ancora irrisolti numerosi problemi. E già si parla di nuovi regolamenti più restrittivi.
Per affrontare i problemi ai quali andremo incontro di qui in avanti, non basta però regolare gli investimenti esteri, occorre dare un impulso straordinario al rilancio delle nostre imprese, senza le quali il declino che abbiamo registrato fin qui è destinato a peggiorare.