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 2025  dicembre 07 Domenica calendario

OpenAI alle strette tra la concorrenza di Gemini e quella dei cinesi

«Finiranno come MySpace»: il giudizio più sferzante sulla crisi nella quale sta precipitando OpenAI è quello di Ross Hendricks, analista di Porter & Co che paragona la società di Sam Altman, apripista dell’intelligenza artificiale dal lancio, tre anni fa, di ChatGpt, alla prima grande rete sociale dell’era di internet che, incapace di trasformare le sue innovazioni spettacolari in un modello di business redditizio, fu ben presto travolta da Facebook.
I timori circa il futuro di OpenAI non sono cominciati nei giorni scorsi con l’aperto riconoscimento da parte di Altman, insito dal suo annuncio di un «codice rosso» aziendale, che Gemini 3, lanciato di recente da Google, ha tolto a ChatGpt la leadership nei modelli di AI. In numeri assoluti l’azienda di Altman può sostenere di essere ancora avanti: 800 milioni di utenti settimanali a settembre mentre Gemini è a 650. Ma OpenAI, che ha lanciato investimenti enormemente onerosi, ha bisogno di crescere a una velocità siderale. Invece negli ultimi mesi il ritmo di crescita è sceso al 5%, mentre Google fa più 30% e con la versione 3, che si sta dimostrando migliore di ChatGpt 5 sotto vari aspetti, è facile prevedere altri guai per OpenAI.
Per questo Altman ha dichiarato lo «stato d’emergenza»: rinvio di vari ambiziosi programmi del gruppo per concentrare tutte le risorse aziendali sul miglioramento del grande modello al centro della sua attività.
In effetti da tempo OpenAI, impegnata su vari fronti, stava solleticando la fantasia dei suoi utenti lanciando idee e investendo in nuovi prodotti in varie aree: dalla generazione di video agli assistenti per lo shopping, alle incursioni nei social media e nel mercato del software per usi aziendali. Ma lo stop di Altman rischia di ritardare anche la creazione di nuove fonti di entrate (soprattutto dalla pubblicità e dallo shopping) delle quali un’azienda che fattura molto poco, perde moltissimo e sta investendo cifre spropositate, ha un bisogno disperato.
Né Gemini 3 è l’unico problema per Altman. A gennaio la cinese Deep Seek aveva fatto tremare OpenAI e anche gli altri big americani dell’AI e Nvidia, produttrice dei chip più avanzati, presentando un modello che pareva simile a ChatGpt, realizzato a costi bassissimi e senza utilizzare i microprocessori di ultima generazione. Solo spavento passeggero, si disse allora, quando emerse che Deep Seek aveva prestazioni inferiori ed era stato addestrato su tecnologia americana.
Ma ora sta emergendo sempre più chiaramente che Deep Seek e altri modelli cinesi «leggeri» – che sono meno potenti, ma anche meno costosi, con consumi energetici molto più bassi e open source, utilizzabili da qualunque sviluppatore – stanno conquistando quote di mercato. Anche negl Usa. Perfino nella Silicon Valley dove Brian Chesky, fondatore e ceo di Airbnb, benché amico di Altman, spiega che la sua società, avendo automatizzato il customer service con agenti intelligenti tratti da ben 13 diversi modelli di AI, trova che uno di loro, Qwen della cinese Alibaba, sia molto più performante ed economico di quelli di OpenAI.
Sono problemi enormi per Altman che si è impegnato a investire ben 1.400 miliardi di dollari in infrastrutture per l’intelligenza artificiale (una cifra pari ai due terzi del Prodotto interno lordo italiano) e che, secondo Deutsche Bank, nel quinquennio 2024-29 perderà ben 140 miliardi di dollari. Magari poi creerà prodotti straordinariamente redditizi, come sostiene Altman, ma mai nessuno nella storia ha mai perso tanto in una fase di lancio.
Ora il dubbio degli analisti è che, puntando sui costosissimi modelli proprietari superpotenti e chiusi, OpenAI abbia preso la direzione sbagliata. Fosse così, sarebbero guai per tutto il sistema vista la rete di «affari circolari» intorno al gruppo di ChatGpt che coinvolge Nvidia, AMD, Oracle e Amazon. Anche Google segue la stessa filosofia «costosa», ma dovrebbe avere meno problemi: è fuori dagli «affari circolari» e, a differenza di OpenAI che deve indebitarsi pagando alti tassi d’interesse, dispone di un flusso di 30 miliardi di profitti ogni trimestre.
Toccherà a Trump salvare OpenAI? Una richiesta, poi rientrata, di garanzia federale sui prestiti raccolti da OpenAI ha ricevuto un secco «no» dalla Casa Bianca. Ma se la situazione precipiterà, Trump rischia, nelle tecnologie strategiche Usa, un crac disastroso come quello di Lehman a Wall Street nel 2008. Altman fa una considerazione che potrebbe diventare la via per un salvataggio mascherato: i data center costruiti dai privati per alimentare modelli sempre più potenti potrebbero diventare di proprietà del governo, visto che sono infrastrutture strategiche per il Paese.