Corriere della Sera, 7 dicembre 2025
Intervista a Luis Durnwalder
«Il vecchio Luis abita lassù». La signora dall’aria tirolese indica la montagna di Cirlano coperta dalle nuvole. Prendiamo una stradina che serpeggia fra case e vitigni e finisce ai piedi di un grande edificio, forse uno stabilimento. Luis Durnwalder vive qui, in questo strano luogo della bassa val Venosta dove tutto sa di legno, di fieno e di speck. Lo troviamo sulla porta ad attenderci, puntuale e guardingo. Stretta di mano che non si dimentica, voce tonante, l’ottantaquattrenne storico presidente dell’Alto Adige Luis Durnwalder è il solito omone grande e grosso sicuro di sé: «Seguimi». Dopo aver governato per 25 anni la Provincia più speciale d’Italia ha scelto per il riposo del re il maso della sua seconda moglie. Qui lo chiamano con affetto Luis o Durni, tenerezze che non devono ingannare: è pur sempre Durni il kaiser, padre e patriarca di una terra che conosce valle per valle, maso per maso, pecorella per pecorella. Compresa quella dal pelo fulvo che da bambino scorrazzava fra i prati della val Pusteria e oggi svetta sul mondo scalzandolo per fama: Jannik Sinner. Ci presenta Angelika, la bella moglie molto più giovane di lui, che serve un tè, dei dolci fatti in casa, un tagliere di salumi e formaggi e stappa una bottiglia di rosso. Sono le 11 del mattino.
Presidente, dicevano che Durni senza lavoro sarebbe morto. Le sue giornate erano memorabili: sveglia ore 4, colloqui con cittadini dalle 6 e appuntamenti vari fino a tarda sera. Come va?
«Senza lamenti: questo pomeriggio ricevo un gruppo musicale che vuole dei consigli, poi vedo il sindaco di Scena e in serata sono a Bressanone per la commemorazione di Kreisky, grande uomo».
Cioè?
«Kreisky è il ministro degli esteri austriaco che fece moltissimo per l’autonomia dell’Alto Adige portando la questione sudtirolese davanti alle Nazioni Unite. Mi chiamano per ricordarlo, vado, faccio il discorsetto, rivedo amici».
Si sente italiano o austriaco?
«Io mi sento sudtirolese con passaporto italiano, sono della minoranza austriaca di lingua tedesca dell’Italia».
Se dovesse scegliere fra Austria e Italia?
«Probabilmente voterei per l’Austria ma l’annessione dell’Alto Adige a Vienna non ha più senso. Come non ha senso parlare di un Tirolo indipendente in quest’epoca che unisce. La nostra autonomia è poi protetta da una legge internazionale, per cambiare bisognerebbe che l’Austria chiedesse l’Alto Adige violando l’accordo e che l’Italia dicesse sì, cosa impossibile perché se lo vuole tenere».
Cosa pensa di Sinner e delle polemiche sull’italianità?
«Premessa: io sono nato e ho vissuto in un maso di Falzes, in val Pusteria, la sua valle. Noi eravamo sette vacche e undici fratelli, poveri, isolati ma felici. Jannik è rimasto legato a questa terra e alla sua famiglia. A Sesto l’ho visto spalare letame sui prati per aiutare un amico, bello. Per quanto riguarda le polemiche sulla rinuncia alla coppa Davis, l’italianità non c’entra nulla. Lui fa quello che gli dicono e pensa solo a vincere, non all’Italia. Anche le critiche ai genitori che parlerebbero troppo poco e solo in tedesco non hanno senso. A parte che non è vero, bisogna anche capire che la maggior parte delle persone di queste valli non si sente a proprio agio con l’italiano. Temono di venire fraintesi. E hanno la riservatezza dei pusteresi».
Sinner si è detto felice di essere nato in Italia e non in Austria e così sono insorti gli Schützen (la storica milizia tirolese patriottica): «Caro Jannik, le tue parole sono avventate, ricorda che l’Austria che tu rifiuti si è faticosamente impegnata per l’autonomia, la nostra lingua, la nostra storia, la nostra identità...». Cosa ne pensa?
«Povero ragazzo, quando c’è di mezzo la questione dell’Italia non può dire e fare nulla che c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da ridire. Gli Schützen hanno esagerato e lui ha cercato solo di spegnere l’incendio. E finiamola anche con la storia che vince perché è tedesco. Vince perché è forte, perché ha un grande talento ed è abituato a fare grandi sacrifici. Vince perché se nasci fra queste montagne e parli tedesco devi rimboccarti le maniche più degli altri ed essere agile e veloce come le trote se vuoi farcela».
Cambiando discorso, disse di avere la durezza furba del contadino, «scarpe grosse e cervello fino». Ci rivela qualche astuzia?
«Io vengo dal mondo rurale, sono abituato a risolvere i problemi in modo pratico e veloce. Non sarò un candidato al premio Nobel della democrazia ma decido, faccio, eseguo. Per farmi votare anche da italiani e ladini ho fatto la colomba, io che sarei falco. Per esempio, ho sempre rifiutato la presidenza della Südtiroler Volkspartei che mi offrivano: sono il presidente anche degli italiani, ho detto, capito?».
Lei è una vecchia volpe anche per i giudici: ha usato i fondi riservati della Provincia senza giustificativi.
«Posso aver sbagliato la forma ma di sicuro non ho mai intascato un euro. La cosa che più mi fa male è l’accusa di aver danneggiato l’immagine dell’Alto Adige: vergogna! Io che lavoravo 20 ore al giorno per questo territorio l’avrei danneggiato. E devo anche risarcire 200 mila euro».
Fa parte di un partito, l’Svp, che in qualsiasi altro posto del mondo starebbe a destra e qui no. Perché?
«C’è di mezzo Mussolini che voleva italianizzare in modo forzato il Sudtirolo annesso dall’Italia dopo la prima guerra mondiale. Voleva eliminare la nostra lingua, facendo diventare minoranza la maggioranza tedesca. Io ero diventato Luigi, il nostro maso Oberwald era diventato Bosco di Sopra. Non ce l’ha fatta. Dopo la seconda guerra abbiamo iniziato a lottare per l’autonomia, abbiamo tenuto la lingua e la maggioranza e il 90% delle imposte. Abbiamo costruito strade, scuole, aziende e la gente delle montagne è rimasta. E così è successo che il gruppo linguistico italiano si è pure ridimensionato, scendendo dal 34% degli anni 60 all’attuale 26%. Oggi siamo la provincia più benestante d’Italia, abbiamo il pil pro capite superiore a tutte le regioni austriache tranne Vienna. Perché dunque dovremmo farci del male per passare con l’Austria? Ci studiano da tutto il mondo».
Qualche esempio?
«Vengono delegazioni dall’Asia, dall’Africa, dall’Europa dell’Est. Il Dalai Lama che vuole il Tibet sovrano è venuto 4-5 volte, sono venuti israeliani, palestinesi, bianchi afrikaner dal Sudafrica, la minoranza slovena che vive in Austria. E io sono andato spesso in giro per il mondo a tenere conferenze. Anche a Donetsk e Luhansk, applausi. Penso che se l’Ucraina avesse dato l’autonomia ai russofoni del Donbass forse avrebbe tranquillizzato la gente ed evitato la guerra».
Ha conosciuto vari capi di Stato italiani. Come li ricorda?
«Cossiga veniva sempre a Falzes, conosceva bene la storia e la politica tedesca e così ogni volta gli portavo qualche vecchio soldato. Con Napolitano è successo che ero stato invitato ai festeggiamenti del 17 marzo, l’anniversario dell’Unità l’Italia, io non ci sono andato e lui mi ha scritto una lettera: ripensaci. E io: riapriamo una vecchia ferita? Hai ragione, disse».
Leader politici preferiti?
«Andreotti, grande intesa e grande ironia. Diceva che amava così tanto la Germania che ne voleva due. Con Berlusconi invece non si riusciva a parlare di cose serie. Te ne racconto una che dice tutto: vado a Roma al Consiglio dei ministri, sono in sala d’attesa, mi chiama l’usciere: entri il presidente Duvald!, sbagliava sempre il mio nome. Poi arriva Berlusconi e dice “dov’è il mio amico Durni?” E mi abbraccia come se mi conoscesse bene. Dovevo spiegare una norma. La spiego e fa: “È tutto? Brrravo presidente, in due minuti ha spiegato una cosa che non avevo mai capito, merita un applauso”. E ha fatto alzare tutti i ministri ad applaudire. Ecco, faceva queste stupidaggini. “Se ha bisogno di qualcosa chiami”, ha detto. Ho chiamato e non ha fatto niente».
Voleva farsi frate, uno come lei, possibile?
«A Chienes c’erano gli agostiniani dell’abbazia, i padri di Novacella. Avevano un convitto e mio padre, che non aveva soldi ed era stato convinto dal direttore scolastico a farmi studiare perché ero bravino, mi mise nella scuola di preparazione per preti. Sono rimasto sei anni, saltandone due per meriti, fino all’esame di maturità. Poi c’era il seminario e stavo prendendo i voti. Avevo già il nome: fra’ Norbertus. Dovevo entrare in convento ma lì ho capito che c’erano anche le donne e allora sono andato all’Università a studiare prima Scienze agrarie e poi giurisprudenza».
Fra’ Norbertus ha avuto poi due mogli, tre figli e una compagna per 10 anni, vita varia...
«La mia prima moglie, Gerda, mi aveva proprio piantato in asso. Una sera torno a casa e trovo questa lettera: “Caro Luis, ho sposato te, non tutti i tirolesi, ti lascio”. E se n’è andata con i due figli. Li avevo trascurati senza rendermene conto, grande rammarico. Poi c’è stata Haike, una dottoressa, e dal 2003 Angelika che mi ha dato l’ultima figlia».
Suona il telefono: «Ja, bitte? Olga! Olga Olga...». Mette giù: «Lavorava con me, eh».
Riappare Angelika, il rosso è finito, si ride.