Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 06 Sabato calendario

Italia, l’invasione dalla Cina: deficit commerciale a 45 miliardi

L’invasione delle merci cinesi non è più uno slogan politico, ma un dato economico. Nel 2024 la Cina ha registrato un surplus commerciale verso l’Italia superiore a 34 miliardi, quasi il doppio rispetto al 2019, con esportazioni triplicate rispetto alle importazioni. Nei primi 10 mesi di quest’anno il disavanzo con Pechino è salito a 40,6 miliardi, segnala l’Istat: a questo ritmo il saldo potrebbe arrivare a 45 miliardi a fine anno, si stima. Il cuore dello squilibrio non è quello che l’Italia vende a Pechino, tradizionalmente limitato, ma ciò che compra: nel 2024, oltre 8 miliardi nel settore chimico, 7,5 miliardi tra computer, elettronica e ottica, circa 6 miliardi ciascuno in apparecchi elettrici e macchinari, comparto quest’ultimo dove, pur esportando più di 3,5 miliardi, Roma resta in deficit. La dipendenza italiana è particolarmente elevata nel mobilio (26,9%), nel tessile (24,1%) e negli apparecchi elettrici (21,7%). L’effetto combinato è un aumento stabile della presenza cinese nei segmenti medio-bassi, ma anche un avanzamento nel segmento medio, dove le imprese europee faticano a competere sui prezzi.
La dinamica degli ultimi due anni, però, non si spiega solo con la competitività di prezzo. I dazi introdotti da Washington hanno deviato parte dei flussi: ciò che non entra negli Stati Uniti cerca nuovi sbocchi in Europa, dove la domanda interna debole e l’assenza di strumenti di difesa rapidi rendono il mercato particolarmente vulnerabile. Il fenomeno si vede in Italia, ma riguarda l’intera Unione.
A complicare il quadro c’è un cambiamento strutturale nel modello industriale cinese. Per anni molte imprese italiane hanno importato da Pechino microcomponenti essenziali a basso costo. Ora, in diversi settori, la Cina ha smesso di vendere solo il pezzo singolo e propone direttamente il prodotto finito, spesso a un prezzo che per i produttori europei è impossibile eguagliare. Quando la fornitura di quel componente viene interrotta o rincarata, le Pmi più fragili entrano in crisi: alcune sono state costrette a chiudere, altre a ridimensionarsi o a riprogettare intere linee produttive. La transizione verso prodotti completi made in China sta dunque erodendo spazi di mercato che in passato erano presidiati dall’industria italiana ed europea.