corriere.it, 5 dicembre 2025
Plasma, l’equilibrio fragile dell’Italia: perché le carenze aumentano nonostante la raccolta record
Il sistema italiano dei plasmaderivati vive oggi una condizione di apparente paradosso: da un lato la raccolta ha superato livelli record (nel 2024 sono state superate le 900 tonnellate), dall’altro l’autosufficienza nelle immunoglobuline è scesa, e le carenze si avvertono sempre più. Luciana Teofili, direttrice del Centro Nazionale Sangue, sintetizza così la situazione: «L’autonomia italiana si attesta al 59%, un dato inferiore rispetto a quello di 10 anni fa, nonostante i numeri della raccolta degli ultimi due anni siano stati da record». «Ma il gap da colmare non è solo numerico, è anche comunicativo. Oggi come oggi sono ancora relativamente in pochi a rendersi conto di quanto sia importante donare il plasma e di come i farmaci plasmaderivati vengano usati quotidianamente in numerose terapie salvavita».
Come spiega il Centro nazionale sangue, la plasmafereso è un prelievo effettuato tramite un’apparecchiatura (separatore cellulare) che immediatamente separa la parte corpuscolata del sangue, ovvero globuli rossi, bianchi e piastrine, dalla componente liquida che viene raccolta in una sacca di circa 600-700 ml. La parte corpuscolata viene reinfusa nel donatore. Il volume di liquido che si sottrae con la donazione viene ricostituito grazie a meccanismi naturali di recupero, l’infusione di soluzione fisiologica e l’assunzione di liquidi.
Il plasma viene conferito all’industria farmaceutica dove viene usato per produrre medicinali salvavita, i cosiddetti plasmaderivati, come ad esempio le immunoglobuline, l’albumina o i fattori della coagulazione. I medicinali prodotti con il plasma donato non vengono usati a fini commerciali; infatti, una volta terminato il processo di lavorazione, vengono restituiti alle strutture sanitarie delle Regioni e delle Province Autonome italiane. I farmaci plasmaderivati sono distribuiti gratuitamente ai pazienti che ne hanno bisogno ed eventuali lotti eccedenti il fabbisogno nazionale vengono donati a paesi in difficoltà tramite programmi di collaborazione internazionale.
Alla base del problema c’è una dinamica precisa: la richiesta globale di immunoglobuline cresce più velocemente della capacità di raccolta. «In un certo senso il sistema sanitario sta subendo le conseguenze dei suoi successi – dice Teofili –. La sempre maggiore efficacia delle terapie oncologiche, l’aumento delle aspettative di vita e il miglioramento delle capacità diagnostiche hanno fortemente allargato la platea di potenziali pazienti. Dall’altro lato la ricerca sta suggerendo nuovi ambiti di applicazione per i medicinali plasmaderivati e per le immunoglobuline in particolare, contribuendo quindi all’aumento della domanda. È proprio in considerazioni di questi fattori che vanno avviate delle riflessioni profonde sull’appropriatezza dell’utilizzo clinico delle immunoglobuline. Questo è un fronte su cui ci stiamo muovendo sia a livello internazionale, partecipando a dei progetti che hanno l’obiettivo di scongiurare il rischio-carenze, ma anche a livello nazionale dove abbiamo avviato un confronto che ha coinvolto l’Aifa, le società scientifiche e le associazioni di donatori e pazienti».
Anche Giovanni Musso, presidente Fidas, conferma il divario: «Anche quest’anno, se i dati saranno confermati, la raccolta di plasma dovrebbe superare, seppur di poco, quella dello scorso anno. È un risultato positivo, che riconosce l’impegno della rete trasfusionale e delle associazioni. Tuttavia, questo incremento non basta a compensare una domanda che nel nostro Paese cresce stabilmente di circa il 4% l’anno, e proprio questo divario strutturale spiega la flessione dell’autosufficienza nelle immunoglobuline».
Raccogliere di più non basterà se non si interviene anche sull’uso dei farmaci. «In una fase in cui domanda e offerta si muovono a velocità diverse, l’appropriatezza diventa uno strumento di tutela», dice Musso, sottolineando l’importanza di un impiego proporzionato delle immunoglobuline.
Dal fronte dei pazienti, il presidente di Cidp Italia, Massimo Marra, chiede un cambio di passo deciso: «Le immunoglobuline non possono essere considerate come un bene da gestire mese per mese, ma come una risorsa strategica che richiede pianificazione a lungo termine. Programmare significa essere ragionevolmente certi che in futuro il farmaco sarà disponibile. La legge dice che l’autosufficienza è una priorità nazionale, ma la realtà dice che siamo a novembre e il piano annuale ancora non è stato approvato. Chiediamo subito un piano triennale che preveda di raggiungere il 90% dei consumi attuali. E chiediamo che questo piano di raccolta minimo non sia autodeterminato al ribasso dalle Regioni ma che sia fissato a livello nazionale anche esercitando un potere sostitutivo nei confronti di quelle regioni che raccolgono poco. Infine, programmazione stabile significa valorizzare le donazioni di plasma, perché senza un reale incremento di donatori nessuna strategia può reggere.
Per i pazienti, la continuità della terapia non è un dettaglio amministrativo: è ciò che determina autonomia, benessere e qualità della vita. Per questo chiediamo alle istituzioni di trattare la disponibilità delle immunoglobuline come una priorità strutturale e non come un’emergenza ciclica».
Per chi dipende dalle immunoglobuline, ogni oscillazione della disponibilità ha un impatto immediato. Marra ricorda che «la terapia con immunoglobuline non è un trattamento tra tanti: è ciò che consente di mantenere autonomia, stabilità fisica e una vita il più possibile normale. Quando viene meno la certezza della sua disponibilità, le conseguenze non sono solo cliniche ma profondamente psicologiche. Sul piano clinico, l’interruzione o l’irregolarità della terapia possono tradursi in ricadute, peggioramento dei sintomi, perdita di forza e della capacità di svolgere attività quotidiane. La polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica (Cidp) è una malattia cronica che richiede continuità: ogni ritardo può compromettere l’equilibrio che il paziente ha faticosamente raggiunto. Per questo motivo sul piano psicologico l’incertezza pesa forse ancora di più. Le persone vivono con la paura che il farmaco non arrivi, con l’ansia che il proprio corpo possa “cedere” da un momento all’altro. Questo genera stress, insicurezza, perdita di fiducia e spesso anche isolamento sociale».
Per i pazienti con immunodeficienze primitive, la percezione è ancora più netta. «Quando dico che le immunoglobuline sono “un filo sottile che ci tiene attaccati alla vita”, parlo della mia vita e di quella di migliaia di persone come me – racconta Alessandro Segato, presidente di Aip -. È un filo che non dovrebbe mai tendersi, e invece capita spesso di sentirlo vibrare. Basta poco: un calo nella raccolta, un ritardo nella distribuzione, anche solo una voce che circola… e subito avvertiamo la paura di cadere. Noi viviamo così: grati per ogni somministrazione, ma sempre con una parte di noi che spera che quel filo non si spezzi».
Il Covid ha rappresentato un punto di rottura. «La pandemia ci ha mostrato quanto vulnerabile sia il sistema dei plasmaderivati», afferma Marra, ricordando come alcuni Paesi siano arrivati a sospendere o ridurre le forniture.
Il problema non è solo nazionale: l’Europa dipende in larga parte dagli Stati Uniti, veri colossi della raccolta. Segato non usa mezzi termini: «Affidare la nostra sopravvivenza a decisioni prese dall’altra parte del mondo ci preoccupa moltissimo. Se domani negli Stati Uniti cambia una legge o si riduce la produzione, noi in Europa potremmo ritrovarci scoperti. Essere dipendenti dall’estero vuol dire essere vulnerabili. E per chi vive già con una fragilità biologica, questa vulnerabilità aggiuntiva pesa il doppio. L’autosufficienza non è una parola tecnica: è protezione, dignità, futuro». Una dipendenza che, in caso di crisi, può tradursi in conseguenze drammatiche: «Una cosa è affrontare questa situazione quando l’autosufficienza è del 90% e una cosa è affrontare una situazione del genere quando l’autosufficienza nazionale è del 60% circa. Significa dire a 4 pazienti su 10 che non c’è il farmaco per lui», avverte Marra.
Il modello italiano – pubblico, volontario, gratuito – è riconosciuto come tra i più sicuri al mondo, ma è sotto pressione. I donatori non bastano, e quelli giovani sono troppo pochi. «Il mancato ricambio generazionale resta una delle principali fonti di preoccupazione», osserva Teofili.
Musso insiste su un punto spesso ignorato: «In Italia dona appena il 3% della popolazione, e questo indica un potenziale enorme ancora da valorizzare. Se oggi investiamo nella cultura del dono tra le giovani generazioni, non avremo un’emergenza tra dieci anni. Ma questo obiettivo non si raggiunge con iniziative episodiche: serve un percorso educativo continuo e strutturato.
La scuola è il luogo naturale in cui costruire questo percorso. Parlare ai ragazzi del dono del sangue, del plasma, di cellule, tessuti e organi significa far entrare questo valore nella loro formazione civica, come parte integrante della responsabilità personale verso la comunità. La cultura del dono deve diventare un elemento stabile, non una risposta emotiva del momento.
I giovani non sono indifferenti alla solidarietà: rispondono con maturità quando vengono guidati da esempi credibili, testimonianze coerenti e messaggi autentici. Non credo che un influencer possa sostituire un progetto educativo vero. L’obiettivo non è generare attenzione fugace, ma formare persone consapevoli del proprio ruolo».
Il Paese non si muove in modo uniforme. Come sempre accade quando si parla di sanità, alcune regioni eccellono, altre restano in ritardo, e questo crea disuguaglianze anche nell’accesso ai farmaci. Per Teofili queste differenze dipendono da «questioni organizzative e in qualche caso strutturali». «Bisogna sicuramente procedere a un’intensa opera di sensibilizzazione sulla questione, ma bisogna anche aumentare il numero delle plasmaferesi. La plasmaferesi è una procedura che al momento della donazione permette di prelevare soltanto il plasma, la parte liquida del sangue, e reimmettere in circolo i globuli rossi le piastrine. Così facendo riusciamo a raccogliere più plasma e allo stesso tempo è una procedura che impatta di meno sul donatore, perché il plasma si ricostituisce in poco tempo. Basti pensare che una donazione di sangue intero si può fare al massimo 4 volte l’anno (2 per le donne in età fertile), una donazione di plasma in plasmaferesi si può fare ogni 15 giorni».
«Ci sono regioni che raccolgono molto plasma e regioni che ne raccolgono molto meno. Ci sono regioni che consumano molti più plasmaderivati di altre. I pazienti ci riferiscono di differenze territoriali nell’accesso alle terapie e questo spesso può essere messo in relazione con la raccolta di plasma delle stesse regioni. Dal punto di vista dei pazienti questo è un problema serio, perché la salute non dovrebbe dipendere dal codice di avviamento postale», denuncia Marra, ricordando che i pazienti segnalano differenze evidenti nella frequenza e quantità delle somministrazioni.
Segato sottolinea la necessità di un’alleanza tra tutti gli attori: «Pazienti, istituzioni e donatori devono diventare un’unica squadra… quando restano separati, il massimo che fanno non è abbastanza».
Il sistema basato sulla donazione volontaria e gratuita è un patrimonio che l’Italia condivide con pochi altri Paesi europei. «È la prima garanzia di qualità e sicurezza», ricorda Teofili. «Il sistema trasfusionale gode di ottima considerazione all’interno dell’Unione Europea. Sicuramente siamo tra i paesi che raccolgono più plasma tra quelli che hanno scelto di puntare sul principio della donazione volontaria e non remunerata – rammenta -. In Europa però siamo alla vigilia di una piccola rivoluzione, il nuovo Regolamento Europeo sulle SoHO (Sostanze di origine umana, ndr) è stato approvato nell’estate del 2024 e i paesi europei avranno tempo fino ad agosto 2027 per adeguarsi. Cambieranno tante cose, dall’accreditamento delle strutture alle procedure di approvazione per i nuovi preparati. Sarà una sfida per tutti ma anche un’opportunità che permetterà di aumentare ulteriormente gli standard di qualità e sicurezza e di rendere il sistema più reattivo a tutte le novità che arrivano dal settore della ricerca».
Ma quello italiano è un modello da sostenere e modernizzare. Come? Ciclicamente torna ad affacciarsi la proposta (o lo spettro, a seconda dei punti di vista) di incentivare le donazioni pagando i donatori, come accade negli Stati Uniti, dove i donatori possono ricevere una somma variabile dai 20 ai 40 dollari per donazione, a seconda del tipo e del centro.
Segato avverte che la concorrenza dei modelli remunerati può attrarre soprattutto i giovani, ma la risposta non è pagare le donazioni: «La risposta è raccontare il valore della donazione come un gesto che crea un legame diretto tra due vite».
C’è un punto su cui tutte le voci convergono, dai vertici istituzionali ai rappresentanti dei pazienti: l’Italia deve aumentare la raccolta interna, in modo stabile e strutturale. Segato lo dice con chiarezza: «Aumentare la raccolta di plasma in modo stabile e strutturale: è il cuore di tutto. Perché senza plasma non ci sono immunoglobuline. E senza immunoglobuline, per noi, non c’è vita normale. Se riusciremo a garantire un flusso sicuro e continuo, allora potremo finalmente vivere senza la paura costante di rimanere scoperti. E per un paziente cronico avere serenità non è un lusso: è parte integrante della cura». Musso evidenzia la necessità di investire su attrezzature e centri adeguati. Teofili insiste sull’importanza delle plasmaferesi, oltre a «portare ancora avanti il discorso delle nuove tecnologie, dai principi di telemedicina all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. E poi bisognerà far sapere a platee sempre più ampie cos’è il plasma e a cosa serve. Solo sensibilizzando si riesce a stimolare una risposta della popolazione e finora ogni volta che lo abbiamo fatto la risposta è stata sempre positiva».