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 2025  dicembre 05 Venerdì calendario

L’Europa e le nuove guerre

È una regola che non ammette eccezioni. Coloro che occupano ruoli governativi devono sempre esibire certezze, devono sempre dare al pubblico l’impressione di sapere con precisione quali siano le mete da raggiungere e che cosa essi stiano facendo per conseguirle. Anche quando, in realtà, smarriti e confusi, non ne hanno la più pallida idea. Non è forse questa la situazione attuale dei governi europei e delle istituzioni di governo della Ue? Le antiche certezze sono scosse e, in alcuni casi, finite.
L’ attenzione di tutti, comprensibilmente, si concentra sulla fine della protezione americana dell’Europa e sulle sue conseguenze. Non c’è più quella calda coperta che ha protetto così a lungo le democrazie europee dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. E adesso che si fa? A parole, tutti sanno che cosa bisognerebbe fare (rafforzare l’unità europea, fare la difesa europea, sostituire l’America nella difesa dell’Ucraina, eccetera eccetera). Non costa niente recitare la litania. Un altro paio di maniche è trovare i mezzi (a cominciare dall’accordo fra i governi nonché, e soprattutto, dal consenso delle opinioni pubbliche) necessari per realizzare almeno alcune delle belle cose suddette.
Fra le antiche certezze oggi assai meno solide di un tempo c’è anche quella secondo cui le democrazie non vogliono guerre che possano coinvolgere i loro territori ma se tirate per i capelli, trascinate in guerra dall’energumeno di turno, sono in grado di generare le risorse (materiali e spirituali) che servono per sconfiggerlo. La tesi suddetta non valeva per le guerre condotte da democrazie in territori lontani (come la guerra del Vietnam), guerre in cui gli elettori, a schiacciante maggioranza, non correvano rischi personali né il proprio territorio era minacciato. Ma valeva per le guerre interstatali in cui tanto la vita dei cittadini quanto la sussistenza della società democratica fossero in gioco. Se la posta era questa, ossia altissima, le democrazie erano in grado di tenere testa al nemico autoritario e di sconfiggerlo. Questo perché un regime fondato sulla libertà dei più è in grado di suscitare maggiore energia a propria difesa di quanta un regime autoritario ne possa ricavare dai suoi sudditi, privi di diritti e trattati come carne da macello.
Ma oggi l’evoluzione della tecnologia militare (la cyber war, la guerra informatica) scuote le antiche certezze. Leggere gli specialisti che si occupano di guerra informatica è istruttivo soprattutto perché aiuta a riflettere sulle conseguenze politiche dei cambiamenti intervenuti.
Pensate alla tragicommedia attuale. Putin ha scatenato ormai da tempo una guerra informatica senza esclusione di colpi contro l’Europa e le sue infrastrutture. Ma se qualche europeo si azzarda a dire che l’Europa deve difendersi, allora Putin può sostenere, senza nemmeno mettersi a ridere, che è l’Europa a minacciare la guerra alla Russia. E il bello o il brutto (sta qui la tragicommedia) è che dalle nostre parti può trovare un bel po’ di persone pronte a dargli ragione e a deprecare l’aggressività europea, gli istinti (niente meno) guerrafondai dell’Europa. Come è possibile un simile capovolgimento della verità? È possibile, anzi possibilissimo, perché la cyber war è una guerra che resta invisibile ai più, della quale l’opinione pubblica rimane ignara. Certo, gli esperti denunciano e lanciano allarmi. I ministri della difesa (come Crosetto) approntano piani di difesa e ne danno l’annuncio. Ma resta che il pubblico fa fatica a crederci. Che guerra è mai quella che non produce la distruzione dei palazzi, la morte delle persone, eccetera?
Quando era chiaro e netto il confine fra la guerra e la pace, erano anche chiare e nette le conseguenze politiche per la vita delle democrazie. Alla vigilia della guerra contro Hitler erano in tanti in Europa quelli che volevano fare un accordo con lui e alle sue condizioni. Proprio come i filoputiniani di oggi. Senonché, appena scoppiò la guerra, gli amici di Hitler fino a quel momento presenti nelle democrazie dovettero dileguarsi. Altrimenti, sarebbero stati considerati traditori. Ma quando il confine fra guerra e pace, come accade oggi con la guerra ibrida, diventa sfumato, quando si entra in una condizione di non pace/non guerra, una condizione favorita dallo sviluppo tecnologico, allora anche il confine fra chi vuole difendersi in qualche modo dal nemico e chi tifa per il nemico diventa difficile da definire. La guerra ibrida suscita una nebbia che rende impossibile stabilire il confine.
Nelle guerre convenzionali la società aperta su cui si innestano le democrazie è una risorsa. Come dimostra, da ultimo, la resistenza ucraina all’invasione. È tipico dei tiranni sottovalutare la forza della libertà e delle libere istituzioni. Spesso apprendono a loro spese quanta energia e forza la società aperta, se attaccata con armi convenzionali, sia in grado di generare. Ma la cyber war è un’altra cosa. A differenza di quanto accade nelle guerre convenzionali, la società aperta sembra debole, con poche capacità di difendersi se e quando è oggetto di attacchi informatici. Anche perché chi lancia gli attacchi è nella condizione di negare di esserne l’autore. Lanciare virus sulle centrali da cui partono gli attacchi informatici è un atto di aggressione o di difesa? Ci sono quelli disposti a dire che si tratterebbe di un atto di aggressione. E ancora di più quelli disposti a crederci.
La verità è che siamo entrati in una terra incognita. Sulla carta, la società aperta europea non ha molte chances di difendersi dai prepotenti e dai male intenzionati. Ma in passato, in tante altre occasioni, la sua vitalità e la sua capacità di difendersi sono state sottovalutate. Si spera che ciò sia vero anche questa volta.