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 2025  dicembre 05 Venerdì calendario

Intervista a Gemma Boeri

«Mentre ero in cucina a fare i tajarin, mi portano per un saluto questo bel ragazzone. Il signore che l’accompagna mi dice “ha visto che campioncino abbiamo qui?”. Io gli rispondo “guardi, mi spiace tanto, ma non so chi sia...”. Quello mi fa: “Ma come, non riconosce Sinner?”. E io: “Cosa vuole che le dica, abbia pazienza...”».
Gemma Boeri è la regina delle cuoche di Langa da quando, nel 1986, rilevò il circolo ricreativo del minuscolo comune di Roddino (Cuneo) e lo trasformò nel tempio dei tajarin, le sottilissime fettuccine all’uovo che sono tra i simboli della cucina piemontese. Nel suo locale è facile incontrare celebrità in cerca di sapori tipici, «ma per me sono clienti come gli altri» (però ora Sinner lo riconoscerebbe). Prima che il figlio varasse un sistema di booking online, per trovare posto la domenica bisognava prenotare due anni in anticipo.
È nata nel 1948, non erano le Langhe del Barolo e del tartufo, ma della Malora raccontata da Fenoglio.
«C’era miseria nera. Si tirava a campare, non c’erano i soldi per niente. Avevamo un pezzetto di campagna, mia madre scambiava una dozzina di uova per un etto di zucchero, mezzo di caffè... A dodici anni ho cominciato a lavorare, nei campi, poi facendo la sarta e la cameriera. Lavoravo notte e giorno, la prima cosa che mi sono comprata è stata una macchina da cucire, il primo “vizio” un giradischi per i miei diciott’anni. Acquistavo i quarantacinque giri dal titolare del ristorante in cui servivo: vendeva a poco quelli rigati del Jukebox».
Ora invece i vignaioli girano in Ferrari.
«C’è molta arroganza. Ed è esagerato togliere gli alberi per piantare tutte queste vigne. Oggi chi ha i soldi paga 15 mila euro a giornata (unità di misura piemontese che equivale a circa a un terzo di ettaro, ndr), leva il bosco, mette i filari. Dico: ma non ne abbiamo abbastanza?».
Di chi parla?
«Io li chiamo i nuovi feudatari. Stanno arrivando anche da fuori: l’americano che ha preso il Parma s’è comprato un bel pezzo di Roddino, ha eliminato una pineta per piantarci la vigna... Poi dicono: qui non nascono più i tartufi... E come fanno, non ci sono più gli alberi. E li prendono dalla Romania».
Lei cercò fortuna a Torino.
«Con mio marito siamo stati in città dal ’68 all’80, ma uno dei nostri figli soffriva d’asma. Ci dissero che era lo smog, così siamo tornati a Roddino, e nell’86 ho avuto l’occasione di rilevare il Circolo del paese. Per 19 anni son stata a cucinare in un garage, tre metri per due, senza finestre, ma quando l’ho preso il Circolo aveva 190 soci, quando l’ho lasciato 1.250. Nel 2005 finalmente abbiamo trovato questa casa con la stalla, l’abbiamo ristrutturata e ci siamo trasferiti».
Chi le ha insegnato a cucinare?
«Mia mamma e mia nonna, e la mia bisnonna andava a fare i pranzi di nozze nelle famiglie».
Fa i tajarin come sua madre?
«La ricetta è quella, tredici uova intere per chilo di farina, ma lei tirava la pasta con l’Imperia. Una sera ci ordinarono una cena speciale, con il cappone ripieno e i tajarin fatti al matterello. Non ho mai più smesso, non c’è paragone».
Da quarant’anni propone lo stesso menu fisso.
«Ho provato a cambiarlo, ma poi la gente si lamenta. Così è sempre uguale: salame cotto e crudo, carne cruda, insalata russa, vitello tonnato, tajarin, ravioli, due secondi che variano, panna cotta, bunet e meringa...».
Quanti tajarin fa?
«Impasto 400 uova alla settimana, con le signore del paese e le mie nuore. Come dice il mio amico Luciano Bertello (autore di Piccola storia dei tajarin per Slow Food, ndr) mettendo in fila tutti i tajarin che ho tirato si potrebbe fare il giro del mondo. Ha contato anche i ravioli: 11 mila la settimana».
A un certo punto hanno cominciare a venire le celebrità...
«Il primo fu Gino Paoli, che arrivò con Cesare Giaccone, un grande cuoco di Langa: erano ubriachi persi. Era mattino, non erano andati a dormire, arrivarono per pranzare con un cesto pieno di fieno, ghiaccio e una bottiglia di Champagne».
Venne Depardieu.
«Una persona splendida, io non ci credo mica a tutto quello che adesso dicono di lui. Ci ha trattato come amici di una vita, ha provato a stendere la sfoglia... Faceva ridere quando chiudeva i ravioli, perché ha queste mani così grassocce».
Quest’estate ha pranzato qui la Presidente del Parlamento Ue Roberta Metsola.
«Ha festeggiato il compleanno di suo papà. Gentilissima. Ma io non sapevo che era lei, avevano prenotato con un altro nome. Il giorno prima arriva la Finanza, poi la Digos... e dico “ma che succede?”. “Dobbiamo posizionare la scorta”, fanno, e allora mi spiegano. Io li ho rassicurati: “Ma potevate stare sereni, a Roddino nessuno li avrebbe riconosciuti».
Chi l’ha divertita di più?
«Antonio Albanese. Abbiamo fatto le due con Carlin Petrini e dei musicisti. Indimenticabile. Un tempo era normale far festa, suonare le fisarmoniche. Si facevano certi scherzi che ora ti arresterebbero».
L’ex sindaco di Torino Chiamparino è un suo grande estimatore.
«Qualcuno lo propose per la Presidenza della Repubblica. Lui rispose che non pensava a fare il Presidente, ma a venire a mangiare i ravioli da me. E venne».
In puro spirito bipartisan, lei è anche amica del Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio.
«Di più, è mio cugino secondo. Viene spesso con grandi nomi, in questa foto (indica una delle tante appese al muro) è con Cannavacciuolo».
A proposito di cuochi, è affezionata a Enrico Crippa, chef di Piazza Duomo, ad Alba, tre stelle Michelin.
«La prima volta lo portò Bruno Ceretto, il produttore di vino e proprietario del ristorante, quando dovevano ancora aprire. Disse a Crippa: “Voglio che impari a fare l’insalata russa come la fa Gemma”».
Cosa pensa dell’alta cucina?
«È giusto che ci sia scelta: se uno vuole mangiare le cose sofisticate va lì, se uno vuole stare come a casa viene qui, dove ci sono le ricette tradizionali. Ormai chi cucina? Le donne lavorano, chi è che fa i tajarin a mano?».
In questa foto è con Salvatores.
«Con Salvatores e con il mio salvatore: il professor Tarella, l’oncologo che anni fa mi ha guarita da un tumore. Con Salvatores ci siamo conosciuti a un’ecografia».
Lo riconobbe?
«No».
Questo è Peppe Vessicchio.
«Se ci penso mi vien da piangere. Ne ho un ricordo splendido. Persone squisite tanto lui quanto sua moglie. Mi sono innamorata di loro e li pensavo spesso. Bertello l’aveva sentito pochi giorni prima che morisse e Vessicchio gli aveva detto che sperava di guarire per tornare a mangiare qui da noi».
Come fate a lavorare con il menu fisso, in tempi di intolleranze e allergie alimentari? Le tenete in considerazione?
«Sì, le teniamo in considerazione ma certe volte mi vien voglia di picchiarli, che c’è chi te la conta che è vegetariano e poi mi dice “sai Gemma, al tuo coniglio non ho resistito...”».
Qual è il sapore della sua infanzia?
«Un bel piatto di minestrone come lo faceva mia mamma. Sulla stufa, che cuoceva tanto, con quei fagioli di Spagna grossi così, con tutta la verdura del nostro orto...».
Quali sono le sue virtù?
«Mah, io ne ho poche. So fare i tajarin».