Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 04 Giovedì calendario

Redditi da fame e pensione solo a 71 anni per oltre un milione di precari e partite Iva

Quasi 65mila precari hanno versato oltre 14 milioni di euro di contributi alla gestione separata, ma per l’Inps non esistono: non hanno nemmeno un mese accreditato. Zero tutele, zero diritti, zero futuro previdenziale. È l’immagine più estrema dell’iper-precarietà italiana, dentro una platea immensa: 1,7 milioni di iscritti alla gestione separata, che diventano oltre 1,1 milioni se si escludono amministratori e sindaci, figure ad alto reddito che da sole rappresentano oltre la metà dei collaboratori e che gonfiano artificialmente le medie. È questo esercito di lavoratori poveri, intermittenti, sottopagati, che il nuovo studio di NIdiL Cgil e Osservatorio Pensioni Cgil restituisce in tutta la sua fragilità: persone che lavorano e pagano, ma restano fuori dal sistema dei diritti.
Nel 2024 i collaboratori esclusivi, ancora impiegati in migliaia nei call center, nelle scuole d’infanzia, nelle biblioteche, nelle amministrazioni, hanno guadagnato in media 8.566 euro lordi all’anno. Le donne, che rappresentano il 47% della platea, scendono a 6.839 euro, mentre gli under 35, il gruppo più fragile e più numeroso, arrivano a malapena a 5.530 euro.
“L’esigenza di mettere insieme più lavori testimonia l’emergenza redditi del nostro Paese: un lavoro non basta più a condurre un’esistenza libera e dignitosa”, osserva lo studio. I professionisti con partita Iva esclusiva, non iscritti a ordini professionali – archeologi, grafici, guide turistiche, traduttori, tecnici culturali – guadagnano in media 18.094 euro, ma anche qui il divario di genere è netto: le donne si fermano a 15.700 euro, gli under 35 a 14.400 euro. Numeri che hanno ispirato il titolo dello studio: “Poveri oggi… e pure domani”.
Il punto più impressionante riguarda però il funzionamento del minimale contributivo, una regola tecnica che, nella gestione separata, assomiglia a un imbuto che trattiene i contributi e lascia scorrere via i diritti. Nel 2024 servivano 18.555 euro di reddito annuo per maturare un anno pieno di contribuzione. Sotto questa soglia, l’Inps accredita solo una parte delle mensilità. È un calcolo proporzionale: metà del reddito significa metà dei mesi, un quarto del reddito un quarto dei mesi. Ma quando il risultato è inferiore a uno, scatta l’arrotondamento a zero. Così chi guadagna mille euro, o poco più, ottiene zero mesi accreditati, pur avendo versato regolarmente la propria quota contributiva. È questo il meccanismo che genera la figura del “contribuente netto”, il lavoratore che versa ma non esiste nei conti previdenziali.
Tra i collaboratori esclusivi sono 64.722, cioè il 22,5% dell’intera platea. Hanno pagato contributi complessivi per oltre 14 milioni di euro, ma non hanno diritto a malattia, maternità, paternità, Discoll, assegni familiari, né a un solo passo avanti verso la pensione. Lo stesso accade a 36mila professionisti esclusivi, tra cui 20mila donne e 13mila under 35. Solo il 35% di questa categoria riesce a maturare un anno pieno di contributi. Sono lavoratori in carne e ossa, ma per lo Stato diventano lavoratori fantasma.
Il futuro pensionistico di questa generazione non è solo incerto: è praticamente precluso. Lo studio spiega nel dettaglio perché la stragrande maggioranza dei parasubordinati non riuscirà mai ad andare in pensione né a 64 né a 67 anni. L’uscita anticipata contributiva a 64 anni, infatti, prevede due condizioni: 30 anni di contribuzione effettiva (un requisito che il governo Meloni ha portato a 30 anni, rispetto ai 20 previsti dalla riforma Fornero) e un assegno maturato pari ad almeno 3,2 volte l’assegno sociale.
Secondo le proiezioni 2030, significa un importo minimo di 1.811 euro al mese. Le simulazioni dell’Osservatorio Pensioni dela Cgil sono impietose: anche con 40 anni di contributi calcolati sul minimale, la pensione si fermerebbe a 1.080 euro; con 30 anni, addirittura a 773 euro. Nessun parasubordinato che versa sul minimale, dunque, può raggiungere la soglia richiesta. L’uscita a 64 anni è preclusa al 100% della platea.

Nemmeno la pensione di vecchiaia indicata a 67 anni è una reale possibilità per molti. Anche qui serve raggiungere una soglia minima: almeno una volta l’assegno sociale, che nel 2030 equivale a 566 euro mensili. Ma dopo 20 anni di contributi al minimale, la pensione stimata è di 554 euro: dodici euro sotto la soglia, condizione che impedisce l’accesso. Solo con almeno 30 anni di contributi si riesce a superare il limite, ma la gran parte dei parasubordinati non avrà mai una carriera così lunga e così continua. La realtà, dunque, è che né 64 né 67 anni sono realmente raggiungibili.
Per questo lo studio conclude che per quasi tutti rimane una sola via: la pensione contributiva di vecchiaia a 71 anni, l’unica che non prevede soglie di importo e richiede appena 5 anni di contributi. Secondo le stime, il 92% dei collaboratori esclusivi e il 65% dei professionisti esclusivi dovrà attendere questa età per ottenere un assegno, che comunque resterà “modesto e lontano da livelli dignitosi”.

Il paradosso di questa situazione si fa ancora più evidente guardando i conti della gestione separata. Nel 2024 ha prodotto un avanzo di 9,6 miliardi di euro, un risultato in linea con un trend positivo che dura da almeno dieci anni. Le prestazioni temporanee – malattia, maternità, assegni al nucleo familiare, Discoll, Iscro – valgono complessivamente 97 milioni: una cifra minima rispetto ai 2,7 miliardi di contributi versati ogni anno da collaboratori e professionisti esclusivi. “L’odierna esiguità dei compensi e della contribuzione si tradurrà in una condizione di povertà anche in età pensionabile”, nota lo studio, definendo questa prospettiva “ancor più insopportabile” alla luce dell’avanzo miliardario.
A questo si aggiunge una beffa contributiva: sebbene l’aliquota complessiva sia la stessa dei dipendenti (33%), nei collaboratori l’11,41% è a carico loro, mentre i lavoratori subordinati versano il 9,19%. Un “quasi 2% in più” che, denuncia NIdiL, rappresenta un risparmio per le imprese e un aggravio per chi è già privo di tutele. E sotto i 5.000 euro di reddito molte collaborazioni non generano nemmeno contribuzione piena, ampliando i vuoti contributivi di carriere già estremamente discontinue.
“Le scelte da fare vanno in direzione opposta a quanto fa il governo”, afferma il segretario generale Andrea Borghesi, che invoca un equo compenso, l’eliminazione del differenziale contributivo rispetto ai dipendenti, ammortizzatori sociali universali che includano davvero malattia, maternità e Discoll, e una pensione contributiva di garanzia per le carriere intermittenti. Il 12 dicembre NIdiL scenderà in piazza con collaboratori e partite Iva, nello sciopero generale contro una manovra che – sostiene Borghesi – “nulla fa sul versante redditi e pensioni” per quella che è, numeri alla mano, la più povera e invisibile generazione di lavoratori italiani.