Lucy Sulla Cultura, 3 dicembre 2025
Conversazione con Raffaele Alberto Ventura
Otto anni dopo la Teoria della classe disagiata (Minimum fax), Raffaele Alberto Ventura torna a interrogare quella stessa classe che aveva analizzato nel 2017. La conquista dell’infelicità (Einaudi) è un libro in continuità con il precedente, che mira ad approfondire ulteriormente le ragioni della crisi della classe media istruita. (…)
La conquista dell’infelicità parte da un assunto: la classe disagiata non è un’anomalia passeggera, ma il sintomo di un sistema che collassa. (…) Raffaele è a Parigi, dove lavora come ricercatore presso il Laboratoire d’anthropologie politique dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Mi racconta che, dopo settimane di presentazioni, è già stanco di parlare del suo libro. (…)
«Di sola scrittura non si vive. Io, per esempio, non ci vivo. Pubblico libri, li presento, scrivo sui giornali, ma il mio reddito – per fortuna – non arriva solo da lì. Si potrebbe dire che non ne vendo abbastanza. Ma la verità è che nessuno vive di scrittura. Si vive, al massimo, di reputazione. Baricco, per fare un esempio di successo, non vive di scrittura: vive del fatto di essere Alessandro Baricco, della sua figura pubblica, delle persone che lo conoscono e vanno alle sue conferenze o comprano i suoi libri, del valore simbolico che ha costruito negli anni. La reputazione è l’unica cosa che conta oggi. Alcuni riescono a inventarsi un modello di business associato alla scrittura e convertirla in corsi, consulenze, articoli, prefazioni, traduzioni. In pratica, si campa spremendo la propria reputazione come un’arancia, trasformandola in qualsiasi altra forma di reddito. Quanto alla soluzione, in teoria sarebbe semplice: regolamentare. Creare ordini professionali che proteggano chi lavora dall’esercito di riserva che abbassa le remunerazioni. Ma nel mondo della scrittura non lo vuole nessuno: non lo vogliono gli aspiranti, non lo vogliono gli editori che vivono sul volontariato, non lo vogliono i molti che usano la scrittura per fare attivismo o autopromozione online. E se qualcuno provasse davvero a chiudere i confini della professione, scoppierebbe immediatamente un coro in difesa della libertà d’espressione. Il paradosso è proprio questo: il lavoro culturale è difficile da regolamentare e allo stesso tempo non è sostenibile sul piano economico. Ma se scrivere è un diritto, essere letti – e dunque fare della scrittura la propria unica entrata – non lo è. Anzi, è diventato un privilegio sempre più difficile da conquistare.
(…) Sono tanti, troppi, quelli che desiderano la realizzazione personale e tutti sono disposti a spendere in istruzione, a impoverirsi accettando condizioni di lavoro svantaggiose. E al contempo, aumenta la produzione culturale. L’editoria per esempio è vittima di una svalutazione strutturale: si pubblicano in Italia quasi 90 mila titoli all’anno, le voci in circolazione sono tante, gli autori sono più numerosi che in passato, ma pochissimi libri restano in libreria per più di qualche settimana. (…)
«Negli ultimi due secoli abbiamo assistito a una trasformazione decisiva della sfera intellettuale, che prima era in qualche modo delimitata, era una sfera autonoma, quasi sacralizzata. Nell’Ottocento la produzione culturale era finanziata fuori dal mercato: prima dagli aristocratici, poi dalla borghesia, poi c’è stato il mecenatismo politico – il Partito Comunista, poi l’università: modelli che garantivano un recinto protetto entro cui produrre pensiero senza doverlo necessariamente monetizzare. Oggi quel recinto non c’è più. L’intellettuale è sul mercato e deve considerare se stesso come una merce. Se non vendi libri – o se non converti il capitale simbolico dei libri in altre attività: traduzioni, giornalismo, formazione – semplicemente non vivi. O meglio: smetti di fare l’intellettuale, a meno che tu non sia disposto al martirio. È una dinamica impersonale: se non fai i conti con l’economia, è l’economia che li fa con te. Poi c’è il tema della sovrapproduzione culturale. C’è una famosa battuta attribuita a Stalin. Stalin chiede: “Quanti film produciamo in Unione Sovietica?” Gli dicono circa 300 all’anno. E lui dice: “E quanti di questi sono buoni?” Dieci. E allora Stalin risponde: “Dobbiamo produrre solo quei dieci”. Fa vagamente ridere, perché ovviamente tu non puoi prevedere quali sono quei dieci film buoni. (…) Però è vero che non sappiamo più cosa valga davvero. Un secolo fa un ecosistema più piccolo permetteva una selezione più chiara: non tutto era buono, ma tutto era almeno visibile, leggibile, condiviso. Oggi ognuno legge cose diverse e questo disperde la funzione della cultura: far convergere le idee, creare un dibattito comune. Se produciamo più conoscenza di quanta se ne possa assorbire, produrre idee rischia di diventare inutile. (…) La società moderna ha promesso qualcosa che non può essere generalizzato: che tutti possano realizzarsi allo stesso modo. La conquista dell’infelicità nasce da qui: dal fatto che la ricerca permanente della realizzazione personale genera una competizione infinita, consumi insostenibili e, alla fine, una delusione sistematica. È una trappola sociale ed esistenziale: più rincorri l’ideale di te stesso, più ti allontani da qualsiasi forma di felicità stabile. E una società strutturalmente delusa diventa una società politicamente instabile: quando la promessa moderna si rivela irrealizzabile, le istituzioni entrano in crisi. Nel libro non so dire quale collasso arriverà prima – ecologico, economico o istituzionale. Forse un collasso rallenterà l’altro, come durante il Covid: la produzione si è fermata, il debito è esploso, ma l’impatto ecologico della produzione ha rallentato per qualche mese».
A proposito di crescita: molti vedono nella decrescita felice una possibile via d’uscita. Tu però scrivi che la decrescita felice è forse solo un’altra utopia tecnocratica. Perché?
«Il problema non è la decrescita in sé: è quasi certo che, in un modo o nell’altro, dovremo ridurre i consumi. Il problema sta nell’associazione tra decrescita e felice. L’idea della decrescita felice, nata negli anni Novanta intorno alla figura di Serge Latouche, ha cercato di indorare la pillola: se la decrescita è necessaria, allora dobbiamo raccontarcela come un percorso desiderabile, persino gioioso. Ma è difficile immaginare che un ridimensionamento così profondo possa avvenire senza sacrifici. Il grado di felicità dipende dall’immaginario. Un cittadino dell’Ottocento viveva con risorse che a noi sembrerebbero proibitive: significa che la percezione della felicità cambia con la cultura e con l’epoca. Ma oggi non vedo una disposizione ad accettare certe rinunce. Non riesco nemmeno a immaginare come potrebbero farlo persone cresciute nel nostro modello di prosperità. Per questo, nel libro, dico che serve una nuova menzogna vitale: un immaginario capace di rendere sopportabile una trasformazione che, di per sé, non è affatto felice».
Anche perché dalla riforma scolastica del ‘63 a oggi l’accesso agli studi è diventato democratico. È una cosa buona, sulla carta. Solo che ora ci ritroviamo con generazioni di persone cresciute con la convinzione che studiando potevano diventare tutto ciò che desideravano. Mentre le cose non stanno proprio così. (…)
«Il tema della democratizzazione degli studi è complicato da affrontare. Perché è un po’ come quando vai a Venezia e ti lamenti che ci sono troppi turisti, però sei anche tu un turista. (…). La società dei consumi ci sprona a diventare noi stessi, a realizzarci, spingendoci a provare disagio se non riusciamo ad essere quello che vorremmo essere, quello che l’istruzione ha fatto di noi: un avvocato, un filosofo, un calciatore. Ma ovviamente non viene data uguale possibilità a tutti. Quando scopri che non farai ciò che speravi, non perdi solo un lavoro: perdi un’immagine di te. È un dolore reale e spesso non viene riconosciuto. Non esiste un diritto a essere sé stessi perché non può essere implementato. Ma se questo diritto non esiste, allora crollano tutte le promesse della modernità. Perché se non possiamo essere noi stessi allora non saremo mai felici».
In effetti, forse più che nei libri precedenti, qui parliamo di professioni intellettuali in senso ampio: non solo scrittori, artisti, operatori della cultura, giornalisti, ma anche designer, impiegati qualificati, lavoratori del terziario avanzato. Ti propongo un altro parallelo con la finanza. Oggi si parla molto della bolla dell’Ai (…) Amazon ha annunciato che licenzierà 30 mila dipendenti. E non parliamo di lavoratori manuali, ma dei cosiddetti colletti bianchi. In altre parole, la classe media istruita.
«La logica è quella classica del capitalismo: più aumenta il grado tecnologico, più si riduce il numero di persone necessarie a produrre beni e profitto. È la razionalizzazione permanente. (…) Io dico che l’Ai non è una bolla. L’Ai sarà davvero rivoluzionaria. (…) Tutti sanno che i pochi posti qualificati saranno sempre più rari. E quindi tutti corrono per entrarci. È la ragione per cui investiamo in studi, titoli, competenze: perché dobbiamo dimostrare di non essere intercambiabili con una macchina e neppure con milioni di altri esseri umani con il nostro stesso cv. L’unico modo per distinguersi, in questo scenario, è la reputazione: capitale sociale, relazioni, visibilità. È qui che il discorso del mio libro si allarga oltre le professioni culturali: riguarda tutti. La corsa alla realizzazione personale non è più un capriccio narcisistico, ma un requisito di sopravvivenza in un mercato del lavoro in cui sopravvive solo chi riesce a convincere gli altri di essere unico. (…) È per questo che i social diventano centrali: non sono un passatempo, sono un dispositivo di selezione. Non devi essere solo un cv: devi essere uno storytelling».
A volte mi chiedo se i social siano uno strumento nato per rispondere a un bisogno già presente – la necessità di distinguersi, costruire un’immagine, competere per la visibilità – oppure se siano i social stessi ad aver creato questa corsa alla distinzione (…).
«(…) la verità è che i social si sono modellati sulle nostre inclinazioni e, nel farlo, le hanno esasperate. (…) Ma (…) vivono di un equilibrio instabile – quello che Cory Doctorow definisce enshittification: la progressiva degradazione della qualità dei servizi man mano che le piattaforme cercano di estrarre valore dagli utenti. Facebook, per esempio, era interessante finché regalava visibilità. Nel momento in cui ha iniziato a chiedere soldi per ottenere ciò che prima dava gratis, ha smesso di esserlo. Tutte le piattaforme vivono questa tensione (…). C’è però un altro aspetto, forse più importante: oggi le piattaforme lottano per diventare il monopolio della reputazione. Se ne restassero due o tre, e in un certo senso è già così, avrebbero un potere enorme nel definire chi è visibile e chi no. (…) Per molte professioni non misuri più il prestigio con criteri tradizionali, ma con indicatori di visibilità: followers, interazioni, riconoscibilità pubblica. Questa dinamica riguarda anche il mercato del lavoro. Non ovunque, ma in settori come la comunicazione, la cultura, il branding, il giornalismo, i social sono ormai una porta d’accesso. (…) E vale anche per gli scrittori: sempre più spesso gli editori pescano da lì. (…) nel frattempo, produttori di contenuti – influencer, creator – competono direttamente con gli intellettuali per ottenere attenzione, visibilità e capacità di influenzare il discorso pubblico. Prendi un esempio di cui si è parlato molto recentemente: Rita De Crescenzo. Una TikToker popolarissima, intervistata da Fagnani, che produce opinioni e contenuti e compete con gli intellettuali per tempo, attenzione e centralità. È spiazzante – non dico umiliante, ma spiazzante – perché ci ricorda che siamo tutti in concorrenza per lo stesso spazio simbolico».
(…) «La rivoluzione possibile – o probabile – non è quella immaginata dalla sinistra progressista, ma qualcosa di più simile ai Demoni di Dostoevskij o al fenomeno Trump. Oggi una rivoluzione da sinistra è semplicemente impensabile. Non c’è un indizio, non c’è un soggetto collettivo, non c’è un terreno materiale che possa sostenerla. Se domani qualcuno dovesse lanciare la prima pietra, verrebbe travolto. Le uniche forze capaci di mobilitare davvero la società sono quelle sovraniste, populiste, identitarie. Questo è il campo di gioco. Nel migliore dei casi, la rivoluzione sarà un lungo ciclo di dominio dell’estrema destra. Nel peggiore, sarà un crollo civilizzazionale: disgregazione delle catene globali, recessioni prolungate, instabilità politica. C’è però una terza possibilità: una forma di utopia tecnocratica. Una gestione razionale dei rischi – climatici, economici, sanitari, energetici – che assomiglia più a una distopia che a una liberazione. Immagina una specie di governo Draghi–Greta Thunberg: tecnocrazia più ambientalismo, ordine più sostenibilità. Un modello che cerca di rallentare il collasso attraverso regole strette, vincoli rigidi, una gestione del rischio permanente. È una prospettiva poco affascinante, ma forse la meno catastrofica. Sicuramente la più probabile (…). Il problema è che per far funzionare una tecnocrazia servono gli intellettuali. E oggi gli intellettuali sono troppi, frammentati, insofferenti. È impossibile assorbirli tutti dentro un progetto politico: una parte si opporrà sempre, spesso in nome di un populismo che è, paradossalmente, guidato proprio da borghesi intellettuali che si reinventano interpreti del popolo. È un meccanismo antico e ricorrente: quello degli esclusi che diventano oppositori dell’ordine costituito».
Nel tuo libro citi Schiller, che descrive la storia come un eterno ciclo di dittature e rivoluzioni: periodi di libertà sfrenata che sfociano nel caos, seguiti da periodi di oppressione che ristabiliscono l’ordine. Se applichiamo questa lettura al presente, sembrerebbe che ci troviamo in una fase di “troppa libertà”: troppa possibilità di scegliere, definirci, inseguire percorsi individuali – una libertà che però non è sostenibile a livello ecologico né sociale.
«Sì, credo davvero che l’individuo lasciato a se stesso tenda a fare scelte sbagliate. È quasi una costante antropologica. Questo non significa che io sia diventato un autoritario: rimango, per inclinazione, un libertario. Ma un libertario comunitarista, se vogliamo trovare un’etichetta. Cioè: penso che il singolo individuo, isolato, sia pessimo nel prendere decisioni che non portino al conflitto o alla distruzione. È per questo che, nel libro, il vero nemico simbolico è Kant. Con tutta la simpatia per Kant umanamente, per quel tentativo titanico che lui fa di dire: “Io rifondo totalmente l’ordine sociale”. Però trovo che sia in lui che si cristallizza una promessa che non funziona se moltiplicata per ogni individuo del pianeta: la promessa dell’autonomia della ragione, l’idea che ciascuno possa essere legislatore di sé stesso, che la società possa reggersi su individui liberi, razionali, uguali, che seguono l’imperativo categorico e generano così un ordine armonioso. È una promessa straordinaria ma infondata: non puoi moltiplicare quel modello borghese per un’intera civiltà senza produrre conseguenze devastanti. Kant non poteva prevedere né il costo materiale di quella autonomia, né il limite ecologico: lo stile di vita – per quanto sobrio – di un borghese del Settecento replicato su scala planetaria è semplicemente impossibile. E non poteva prevedere nemmeno il paradosso psicologico: dare a tutti la libertà di definire se stessi significa generare una competizione identitaria infinita, non un ordine morale condiviso. (…) Non è un giudizio morale: è una dinamica strutturale. La modernità ha universalizzato un modello di individuo che può funzionare solo in condizioni eccezionali. E questa universalizzazione ha generato l’effetto opposto a quello promesso: non ordine, ma sfasamento; non autonomia, ma dipendenza; non realizzazione, ma infelicità».