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 2025  dicembre 03 Mercoledì calendario

Libia, all’Aia alla sbarra El Hishri: con Almasri è uno dei registi delle torture ai migranti

L’uomo che ha governato l’inferno libico adesso siede davanti ai giudici internazionali dell’Aia. Khaled Mohamed Ali El Hishri è uno dei volti della macchina della tortura che per anni ha funzionato con precisione crudele nel carcere di Mitiga. Stamani (alle 13:30 ora locale), siederà per la prima volta davanti ai giudici della Corte penale internazionale per la sua prima udienza. Ma se oggi si presenta in aula da imputato, il suo collega e sodale, Osama Almasri, noto come il “torturatore libico”, è ancora lontano dall’Aia. Anche lui accusato di stupri, omicidi, violenze sistematiche. Anche lui ricercato dalla stessa Corte. Con una differenza: El Hishri è stato consegnato alla giustizia dalla Germania dove è stato arrestato. L’altro, Almasri, l’Italia lo ha rispedito a casa.
Due uomini, due storie intrecciate, un’unica lunga catena di orrori. Ma dietro quei nomi c’è molto di più: c’è un intero sistema di detenzione fondato sulla brutalità, sostenuto da silenzi internazionali e coperto, talvolta protetto, da scelte politiche. E mentre la Corte tenta di fare giustizia, alcuni Stati europei continuano a ostacolarla.
Stamani all’Aia la giustizia internazionale apre le porte a un nome che da anni abita le ombre del carcere di Mitiga. Quella che potrebbe sembrare una formalità (verifica dell’identità, lingua del procedimento, notifica dei diritti) è in realtà l’inizio di un’inchiesta storica, un precedente che potrebbe incrinare decenni di complicità e silenzi su una macchina di torture che l’Europa conosceva fin troppo bene.
Secondo il mandato d’arresto emesso il 10 luglio scorso e rimasto sotto sigillo per mesi, El Hishri sarebbe responsabile, o peggio, regista, di omicidi, torture, stupri e abusi sistematici. Tra le vittime, centinaia di migranti. Gente senza nome né volto, passata per le celle di Mitiga tra il 2015 e l’inizio del 2020. Ostaggi di una guerra dimenticata e di un sistema di detenzione che ha fatto della crudeltà un metodo.
È stato arrestato in Germania, il 16 luglio. E, da lì, estradato all’Aia lo scorso primo dicembre. Un’azione rapida, decisa, che ha mostrato cosa accade quando uno Stato sceglie di rispettare i suoi obblighi con la giustizia internazionale. Al contrario di altri.
Se il procedimento andrà avanti, El Hishri sarà il primo libico processato per i crimini nei centri di detenzione. Un fatto che pesa. E non solo simbolicamente. Perché da anni le Nazioni Unite, Human Rights Watch, giornalisti, investigatori e Ong denunciano l’esistenza di una rete di prigioni dove il diritto umano è sospeso e la tortura è quotidiana. Eppure, fino a oggi, nessuno era stato chiamato a rispondere.
L’arresto, come ha dichiarato la direttrice di Human Rights Watch, Liz Evenson, è “un momento importante per la giustizia in Libia”. Ma anche un banco di prova per la comunità internazionale. «Quando gli Stati collaborano con la Corte, la giustizia ha una possibilità», ha detto. Parole che suonano come una denuncia più che un auspicio.
Il caso El Hishri riaccende anche un’altra vicenda rimasta sospesa, coperta da una cortina di fumo istituzionale: quella di Osama Almasri Njeem. Arrestato a Torino all’inizio del 2025, era destinatario di un mandato d’arresto della Cpi. Ma l’Italia lo ha rimpatriato in fretta e silenzio, ignorando la richiesta dell’Aia. La motivazione? “Motivi procedurali”. Una giustificazione così vaga da sembrare quasi deliberatamente ambigua.
Almasri è stato rispedito a Tripoli con un volo di Stato, senza avvisare la Corte. La richiesta libica di estradizione è arrivata dopo il decollo: un paravento posticcio, messo lì per legittimare un atto che l’Aia definisce oggi come violazione grave dello Statuto di Roma su cui si basa la Corte internazionale. Lo hanno detto i giudici. Lo hanno scritto, nero su bianco: l’Italia ha ostacolato la giustizia internazionale.
A Roma, intanto, la magistratura non è rimasta in silenzio. La Corte d’Appello ha denunciato l’impossibilità di adempiere all’obbligo internazionale a causa del mancato invio di documenti da parte del ministero della Giustizia. Il risultato? Un processo bloccato. Un rilascio arbitrario. E una giustizia ostaggio di scelte politiche.
La Corte penale ha scelto, per ora, di non deferire l’Italia all’Assemblea degli Stati Parte o al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma il verdetto dei giudici dell’Aia è arrivato lo stesso. È un giudizio morale, giuridico e politico: l’Italia ha abdicato al suo ruolo di garante della legalità internazionale. Ha anteposto il calcolo diplomatico alla giustizia. Ha preferito il silenzio alla verità.
La presenza di Khaled El Hishri in un processo all’Aia è un segnale. Ma non chiude il cerchio. Al contrario: lo apre. Perché se un comandante del carcere di Mitiga oggi siede davanti ai giudici, l’altro, Osama Almasri, è ancora di fatto un ricercato internazionale. E su quel nome pende un mandato della stessa Corte. A oggi, non si sa ufficialmente dove sia detenuto, né se sarà mai consegnato alla Cpi. Tripoli tace. Roma evita. La Corte aspetta. Ma da tempo si muove. E prepara la richiesta formale di estradizione, nel caso venga confermato l’arresto da parte delle autorità libiche.
Nel frattempo, il procedimento contro El Hishri andrà avanti. Potrebbe essere il primo processo per i crimini nei centri di detenzione libici, luoghi di violenza sistemica finora protetti da troppi silenzi. Se sarà celebrato fino in fondo, sarà un precedente. E potrebbe scoperchiare molto più di un singolo caso giudiziario. Potrebbe diventare un fascicolo scomodo per diversi governi.