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 2025  dicembre 03 Mercoledì calendario

Tutti hanno venduto le riserve d’oro. Perdendoci. Cosa deve fare l’Italia e il modello Germania

Mettere le mani sull’oro della Banca d’Italia è una cosa, venderlo un’altra. Il dibattito sulle riserve auree del nostro istituto centrale è tornato d’attualità per un emendamento alla Legge di Bilancio proposto dal capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, che in due righe liquida la questione.
Lo scippo. «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del Popolo Italiano». E scritto così non sembra altro che il tentativo di scippare l’oro ai forzieri di Palazzo Koch e metterli a disposizione del governo di turno.
Bankitalia non è lo Stato. Questo non si può fare. Non solo perché la Banca d’Italia è un organo giuridicamente distinto dallo Stato, della cui amministrazione non fa parte. E i suoi principali azionisti sono le banche, le fondazioni, le casse di previdenza e le assicurazioni italiane.
Ma anche perché un muro di leggi europee la blinda, un particolare che la Bce non ha mancato di sottolineare con una letterina al governo.
Di chi è l’oro. Nel Trattato di funzionamento dell’Unione, dove si parla di politica monetaria, l’articolo 127 definisce la proprietà dell’oro. E tra i compiti del sistema europeo delle banche centrali c’è proprio quello di “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”. Tra le quali si sottintende anche il metallo prezioso.
Chi decide cosa fare dell’oro. Dei lingotti nessuno può fare quello che vuole, nemmeno la Banca d’Italia. L’articolo 31 dello Statuto della Banca centrale europea specifica che tutte le operazioni che riguardano le riserve sono “soggette all’approvazione della Bce al fine di assicurarne la coerenza con le politiche monetarie e del cambio dell’Unione”.
L’indipendenza di Bankitalia. Se è dunque vero che l’utilizzo deve essere concordato con la Bce, lo Stato però non può nemmeno azzardarsi a dire alla Banca d’Italia cosa fare di quell’oro, perché l’articolo 130 del Trattato di funzionamento sancisce l’indipendenza delle Banche centrali che “non possono accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo”.
L’oro non può finanziare lo Stato. Come se non bastasse, se mai qualcuno ci pensasse, le riserve non possono nemmeno essere usate per finanziare gli Stati, perché al riguardo l’articolo 123 del Trattato è chiaro, stabilendo il divieto di finanziamento monetario da parte delle banche centrali: “sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia”.
Le garanzie del sistema. Le riserve, come sa bene l’Argentina che ne è priva, sono un baluardo contro le crisi valutarie, servono per rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario di un Paese e dell’Unione europea tutta.
Far parte o no dell’Europa. Le norme sulle riserve si possono cambiare ed è difficile far accettare in ultima istanza che l’oro della Banca d’Italia non sia degli italiani. Ma se si accetta l’Europa, le regole sono queste.
Eppure tutti hanno venduto l’oro. Seguire le norme europee, non vuol dire che l’oro non si può vendere perché tutte le banche dei grandi Paesi occidentali, chi prima chi dopo, ad eccezione degli Stati Uniti, e fino almeno al 2009, sono stati grandi venditori di riserve d’oro.
Il Regno Unito. A rompere il ghiaccio fu il Regno Unito quando in un tranquillo venerdì pomeriggio del 1999, Gordon Brown, ministro delle Finanze del governo Blair di stampo labourista, decise di vendere 401 delle 715 tonnellate che la Banca di Inghilterra conservava nei suoi forzieri.
L’arrivo della moneta unica. Stava entrando in vigore l’euro e, come accade alla vigilia di tutti cambi monetari, poteva aver senso diversificare le riserve e investire su qualcosa che potesse dare qualche rendimento, perché, se l’oro garantisce una tenuta del valore, di certo non porta dividendi come, per esempio, fanno i titoli di Stato.
Il livello Brown. La vendita iniziò in un momento non favorevole, perché l’oro che già stava ai minimi degli ultimi vent’anni perse ulteriormente valore sull’annuncio, toccando nuovi minimi (il cosiddetto livello Brown), sebbene fu spiegato che sarebbe stata una cessione da compiere in più anni, entro il 2002.
Una svendita. Non fu certo un affare, perché i lingotti vennero venduti a un prezzo medio di 275 dollari l’oncia, mentre al termine della cessione superò il 320 dollari per poi crescere senza fermarsi mai.
La perdita non è altro che aumentata nel tempo visto che la quotazione dell’oro da allora è volata, arrivando fino ai 4mila dollari attuali, un rendimento che neanche i più lauti dividendi avrebbero mai compensato.
Il Central bank gold agreement. Lo choc della vendita inglese spinse gli altri Paesi a correre ai ripari. Il timore di una fuga generale dall’oro e il pericolo di un crollo dei prezzi, che poi non avvenne, portarono alla stipula del Central bank gold agreement, un accordo firmato al Fondo monetario di Washington tra 15 banche centrali europee (quelle degli allora 11 Paesi dell’Eurozona più Svezia, Svizzera e Regno Unito, nonché la Banca centrale europea).
Il tetto alle vendite. Fu stabilito che l’oro sarebbe rimasto un elemento importante delle riserve monetarie globali e concordato di limitare le vendite collettive a 2.000 tonnellate nei successivi cinque anni, ovvero a circa 400 tonnellate all’anno.
La Svizzera. Nell’ambito del Central bank gold agreement rinnovato nel 2002, la Svizzera, che nell’immaginario comune dovrebbe essere un campione nel gestire gli asset finanziari, seguì subito l’esempio del Regno Unito e tra il 2002 e il 2008 ha venduto 1.158 tonnellate, più della metà delle sue riserve d’oro che nel 2001 erano di quasi 2.200 tonnellate.
Il risultato. Gli incassi andarono in parte nelle casse della Confederazione e in parte rimasero come riserve. Il risultato in termini finanziari fu talmente disastroso per il continuo apprezzamento dell’oro che nacquero movimenti in Svizzera per riportare i lingotti nelle casse della banca centrale.
La Francia. Come la Svizzera, anche la Francia sotto il governo Raffarin di centro destra, quando il ministro delle finanze era Nicolas Sarkozy, in accordo con il governatore della Banca centrale Christian Noyer, mise sul mercato tra il 2004 e il 2009, ben 589,2 tonnellate d’oro, portando le riserve da 3.000 alle 2.400 tonnellate del 2010 che sono ancora più o meno le stesse riserve che possiede ora il Paese.
I conti della Corte dei conti. Nemmeno questo è stato un affare, perché la Corte dei conti francese ha calcolato che, sebbene la Banca centrale abbia registrato una plusvalenza di 4,6 miliardi di euro, il rialzo dell’oro passato dai 438 ai 1.100 dollari l’oncia del 2009 avrebbe portato una rivalutazione delle riserve di 19,4 miliardi di euro.
La Spagna. Anche il governo spagnolo non ha esitato a vendere le riserve. Tra il 2005 e il 2007, il ministro delle finanze Pedro Solbes del governo socialista guidato da Zapatero, sempre in accordo con la Bce, ha venduto 241,7 tonnellate di oro, limando le riserve del Paese da 523 a 281 tonnellate (come oggi), incassando in proporzione più o meno le stesse perdite della Francia.
Bruciati 40 miliardi. È stato calcolato che tra il 1999 e il 2009 le banche centrali europee hanno venduto circa 3.800 tonnellate d’oro perdendo 40 miliardi in mancata rivalutazione delle riserve, considerando anche i possibili guadagni con le rendite di investimenti in obbligazioni.
La crisi post Lehman. Più che le perdite, a frenare le vendite delle Banche centrali è stata la crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman Brothers che ha spinto l’intero sistema finanziario, di fronte ai crolli generalizzati di tutti gli asset, a rivalutare l’oro come bene rifugio.
Stop alle vendite. Dal 2010, le vendite si sono azzerate ed è iniziata una corsa all’oro che ha portato il metallo prezioso ai livelli attuali, spinta anche dalla banche centrali di Paesi come Cina e India, oggi ancora tra i principali compratori di lingotti.
Il caso Germania. In questi venti anni, l’eccezione è stata la Germania, il secondo Paese al mondo per riserve in oro con 3.350 tonnellate dopo gli Stati Uniti (8.133 tonnellate).
“Less is more”. Perché tra il 2002 e il 2024 quasi ogni anno il governo tedesco e la Bundesbank hanno venduto oro sul mercato, ma in piccole quantità oscillando tra un massimo di 10,8 tonnellate nel 2002 e un minimo di 1,1 tonnellate nel 2024 per un totale di 106,3 tonnellate.
L’unicità dell’Italia. L’Italia è l’unico Paese che non ha mai venduto nulla e si attesta al terzo posto mondiale con 2.450 tonnellate che nel bilancio della Banca d’Italia a fine 2024 valevano quasi 200 miliardi di euro.
Vorrei, ma non posso. Non che l’Italia non abbia mai voluto incassare dalle riserve, perché proprio negli anni in cui tutti erano venditori anche il primo governo Prodi nel 1997 accarezzò l’idea per raccogliere fondi per entrare nell’euro. E ci ritentò dieci anni dopo nel 2007 in scia a Francia e Spagna per ridurre il debito pubblico, ma fu sempre fermato.
Così vorrebbero tutti. Il pensiero di Prodi non è stato unico, perché ha attraversato l’intero arco dei partiti italiani, dalla Casa delle Libertà alla Lega, fino al governo giallo-verde di Conte e all’ultima proposta di Fratelli d’Italia.
Vendere si può. E forse ai prezzi attuali si potrebbe anche pensare di iniziare a vendere parte delle riserve della Banca d’Italia, non in modo massiccio, ma seguendo l’esempio della Germania che procede con piccole cessioni ogni anno.
In accordo con Bce. La vendita non deve essere un tabù e deve essere concordata con la Banca d’Italia e la Bce, ma soprattutto vanno definite le finalità.
Liberi tutti. Tanto più che da settembre 2025 è scaduto ogni vincolo alle vendite di oro delle banche centrali dell’Eurozona:?non solo si potranno effettuare senza alcun limite, ma non dovranno nemmeno più avvenire in modo coordinato.
Il Central bank gold agreement in vigore dal 1999, e da allora sempre rinnovato con cadenza quinquennale, è stato lasciato cadere perché il mercato dell’oro è diventato talmente grande che non dovrebbe essere più turbato dalle eventuali vendite delle banche centrali.
Resta il dilemma del fine: il più condivisibile sarebbe la diversificazione delle riserve sfruttando l’attuale record storico dell’oro, senza temere ulteriori crescite, perché l’obiettivo di usarle per la riduzione del debito non sarebbe efficace viste le vendite ridotte e a causa del contrasto con i vincoli normativi europei.
Un sano, ma impossibile dibattito pubblico potrebbe portare a una soluzione condivisa, fosse anche a un investimento sulle nuove tecnologie, di cui c’è tanto bisogno, con il più antico degli asset, l’oro di Stato.