la Repubblica, 3 dicembre 2025
E la sera si andava a cena da Joan Didion
«Mi è sempre sembrata una festa orribile», le scrisse un amico dopo un Thanksgiving a casa sua «ma tu l’hai resa qualcosa di davvero meraviglioso». Sì, Joan Didion, la minimalista dallo sguardo freddo che assaporava dure verità e sembrava nutrirsi solo di crudité e aperçus, era capace di abbracciare la festa americana del cibo e dei sentimenti. E di metterla in scena nello stesso modo in cui si dedicava ai suoi saggi, romanzi, sceneggiature e memorie, con pianificazione e ambizione quasi militari.
Organizzava buffet del Ringraziamento per ben 75 ospiti, un vero e proprio Who’s Who dei personaggi illustri del brillante diagramma di Venn in cui si muoveva: circoli letterari (Philip Roth, Edna O’Brien), media newyorkesi (Jimmy Breslin, Jann Wenner), Hollywood (Liam Neeson, Claire Bloom) e l’intersezione di tutti e tre (Nora Ephron).
Batteva a macchina dozzine di menu e liste degli ospiti, annotando chi aveva declinato l’invito, chi era arrivato e a che ora, quanto cibo era avanzato. Redigeva le istruzioni per chi l’aiutava e per se stessa specificando tempi e disposizione di ogni portata.
«Apparecchiare la tavola», recita una di queste istruzioni. «Montare la panna. Preparare le torte. Accendere i fornelli. Togliere il tacchino dal forno – alle 6 o alle 6:30». Sappiamo tutto questo perché quei programmi, elenchi, appunti e il contenuto della sua scatola delle ricette sono stati resi pubblici a marzo dalla New York Public Library, come parte di una vasta collezione (337 scatole) di documenti suoi e del marito, lo scrittore John Gregory Dunne.
Difficile immaginare che resti qualcosa da scoprire su Didion, la cui vita e i cui pensieri sono stati profondamente esplorati, soprattutto dalla stessa autrice che si poneva regolarmente al centro delle sue narrazioni. Lo scorso aprile, tre anni dopo la sua morte all’età di 87 anni, Knopf ha pubblicato Notes to John, una raccolta di appunti di diario sulle sue sedute, spesso dolorose, con uno psichiatra. E la sua abilità come cuoca e padrona di casa è stata celebrata e persino feticizzata. La sua versione dell’insalata di prezzemolo (per 40 persone) ha infiammato internet quando il nipote, l’attore e regista Griffin Dunne, ha offerto un libro di ricette per raccogliere fondi per il docufilm Netflix del 2017, Joan Didion: The Center Will Not Hold. E il suo set di pentole ha raggiunto gli ottomila dollari quando è stato battuto all’asta.
Tuttavia, il tuffo nell’archivio rivela il meticoloso lavoro di preparazione e documentazione che si celava dietro lo stile informale con cui riceveva. Colei che diceva: «Ci raccontiamo storie per vivere» avrebbe potuto dire lo stesso della cucina. «Ho imparato a cucinare da sola nel 1964 e nel 1965, in una casa ammobiliata in affitto sul mare con una cucina che sconvolgeva molti di coloro che la visitavano», ha scritto in una bozza senza data e incompiuta, ricca di correzioni scritte a mano con la penna rossa.
Quella cucina, nella prima delle quattro case in cui abitò in California, «non aveva lavastoviglie, né tritarifiuti, né forno ad altezza occhi, né tostapane... ma aveva un fornello a sei fuochi con forni molto grandi, un grande lavello vecchio stile, una dispensa, un pavimento di piastrelle di terracotta consumate e scure e una lunga rastrelliera di pentole e padelle estremamente professionali, molto vecchie, molto pesanti, in alluminio pressofuso e ferro, con quei coperchi piatti europei che si adattano a tutto e non occupano spazio nei cassetti».
«Questa» dichiarò «era la casa in cui mi resi conto per la prima volta che la cucina può essere un rituale, una meditazione, una stanza e un momento tutto mio». Didion sottolineava spesso che la memoria è selettiva, e suo marito contestava la sua. «No, non hai imparato a cucinare da sola nel 1964-65», scrisse su un biglietto «Noel ti ha insegnato a cucinare. Non togliergli anche questo». Noel era l’ex fidanzato e mentore, lo scrittore Noel E. Parmentel Jr., che le aveva presentato Dunne.
Il suo tesoro di ricette – strappate dai giornali, dattiloscritte o trascritte con la sua calligrafia ordinata – è una capsula del tempo, ricca di piatti francesi appariscenti che erano il fiore all’occhiello delle cene di lusso negli anni ’60 e ’70: daubes, crème caramel, soufflé. Nel 2022, al suo funerale l’amica di sua figlia Quintana, Susan Traylor, ricordò una festa di compleanno in cui Didion servì soufflé al cioccolato caldo a un gruppo di giovani perplessi, poi mostrò a ogni bambino come mangiarli, perché non sapeva come preparare una torta di compleanno.
La raccolta mostra la crescita di Didion come cuoca, a partire dalle enchiladas e dalle albondigas che imparò in California, per poi aggiungere altro: risotti, tandoori, borscht, un antipasto di anatra Sichuan (per 50 persone) e diverse ricette di gumbo. Gli amici si affidavano al suo giudizio. «Quando hai guardato la parodia secca e fumante delle patate gratinate che ho preparato venerdì sera e hai detto: “Beh, sono patate Anna”, sono stato colpito da una nuova valanga di amore per te», le scrisse il giornalista Barry Farrell in una lettera del 1973.
Didion attribuiva la sua intraprendenza domestica allo spirito dei suoi antenati pionieri che erano emigrati a Sacramento dall’Illinois attraverso la Sierra Nevada. E diverse ricette sembrano richiamare la sua infanzia: polpettone di salmone, polpettone di ostriche, chutney di zia Minna. Ma non aveva imparato a cucinare nella casa di famiglia. «Se non impari mai a farlo» le aveva suggerito sua madre «semplicemente non ne avrai mai bisogno».
Dopo il college negli anni ’50, Didion lavorò a Manhattan per Vogue, dove a volte correggeva le ricette. In California, dove i Dunne si erano trasferiti subito dopo il matrimonio nel 1964, organizzavano regolarmente cocktail party per una cerchia di persone legate a Hollywood. Didion non era una bohémienne.
In un’epoca in cui molte sue coetanee cercavano di liberarsi dai lavori domestici, lei ne apprezzava il rigore. Nel libro The White Album ricorda quanto fosse rimasta turbata, durante una visita di gruppo alla vecchia residenza del governatore della California, nel sentire che nessuna delle altre donne sapeva a cosa servisse un tavolo di marmo per stendere la pasta.
Il grande appartamento nell’Upper East Side di Manhattan dove i Dunne si trasferirono nel 1988 ha restituito una montagna di documenti che attestano le loro regole a tavola. Inventari di posate. Agende con prenotazioni nei ristoranti abituali: Elio’s, Shun Lee Palace, Da Silvano. Menu dattiloscritti anche per i pasti più semplici. I menu delle feste degli anni ’80 e ’90 sono classici e lineari come il suo guardaroba, e quasi identici di anno in anno. Petto di tacchino arrosto con salsa e ripieno di riso. Salsa di mirtilli rossi. Cuori di carciofo in besciamella, patate dolci gratinate e, al posto del purè di patate, una purea di barbabietola, rapa o sedano rapa. Insalata con arance e crostate di mele, noci pecan e zucca.
Pagava alcune persone per aiutarla a cucinare e servire nelle grandi occasioni e non si preoccupava dei dettagli che potevano essere risolti con ingredienti acquistati in negozio, come carciofi surgelati o patate dolci in scatola. Preparava la maggior parte dei piatti in anticipo. Durante il resto dell’anno invece cucinava da sola e da zero, con grande concentrazione. «Nessuno entrava in cucina quando c’era lei» ricorda il nipote Griffin Dunne. «Era come entrare nel suo ufficio».
Quando arrivavano gli ospiti, l’ossessione era finita. «Tutta la struttura che aveva creato, esattamente come sarebbe stato preparato tutto e a che ora, non era visibile ai suoi ospiti. Quindi, in un certo senso, era la padrona di casa perfetta» spiega Sharon DeLano, che amministra la sua eredità letteraria. La lista degli invitati al buffet più imponente che Didion abbia realizzato, nel 1993, era un mix eterogeneo.
Tra gli ospiti, gli scrittori Susan Sontag, Bret Easton Ellis e Donna Tartt, il drammaturgo John Guare, il pittore Eric Fischl ma anche il detective Thomas Hyland del dipartimento di Polizia di New York. Se le festività richiedevano un controllo rigoroso, la cucina di tutti i giorni era tutta un’altra cosa. Per una scrittrice immersa nelle cattive notizie, poteva essere un modo per lasciarsi andare.
Ha descritto la preparazione del roux, da mescolare lentamente con un cucchiaio di legno «fino a quando la farina assume il colore di una noce pecan scura», per poi aggiungere con disinvoltura gli ingredienti man mano che la giornata avanzava: strisce di pancetta avanzate dalla colazione, il brodo di un pollo arrosto del giorno prima, «la foglia di alloro dell’albero di fronte, il coriandolo dal muro verso il mare». A quanto pare non ha mai completato il saggio, il che sembra appropriato. Il punto non era completare il piatto, era la preparazione. «Ieri ho preparato un gumbo e mi sono ricordata perché amo cucinare» si legge nei suoi appunti. «L’intenzione è tutto, in cucina come nel lavoro o nella fede».