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 2025  dicembre 03 Mercoledì calendario

Si fa presto a dire Belle Époque: era l’orlo dell’abisso

Non si sa chi abbia usato per la prima volta la locuzione “Belle Époque”. Caso raro, entra nel linguaggio spontaneamente – dal basso e dall’uso comune – fino a imporsi e divenire periodizzante. Dopo la Prima guerra mondiale, nell’Europa devastata dal lutto di milioni di morti, impaurita dall’epidemia di spagnola, dall’instabilità politica e dall’aumento del costo della vita, il ricordo dell’epoca che aveva preceduto il crollo si colorò progressivamente di rosa. Sì, era stata un’epoca bella, quella della lunga pace (le guerre, che pure si combattevano, erano lontane, nelle colonie o in altri continenti) – decenni in cui il progresso sembrava inarrestabile; le scoperte scientifiche e tecnologiche si susseguivano, migliorando l’esistenza di tutti.
L’elettricità, l’automobile, l’aereo, la radio, le ferrovie sotterranee, i raggi X. Anche le arti e l’intrattenimento si rinnovavano: nacquero i café chantant, e il cinematografo. L’espressione è francese, perché la Ville Lumière della Terza Repubblica fu l’epicentro del trionfo della borghesia e il simbolo della prosperità economica e del piacere di vivere – una condizione che pareva dovesse durare per sempre (l’analogia con la contemporaneità è sottintesa).
Ma non fu solo un fenomeno parigino, anche se in Italia il periodo d’oro era stato più breve (l’ultimo quarto del XIX secolo fu piuttosto quello della grande fuga, l’emigrazione di massa, e delle lotte contadine e operaie per la terra e la tutela dei lavoratori, represse brutalmente). Inoltre da noi questa percezione si precisò in forma di satira e parodia: la “Belle Époque” come periodo insulso e vacuo, i cui tipi dominanti erano gaudenti viveur, sciantose da tabarin e ufficiali dissipatori. Nella commedia Gastone del 1924, Ettore Petrolini rielaborò la macchietta del fatuo Arturo creata nell’anteguerra: tutta Italia ne rise. Ma negli anni Cinquanta, dopo le ulteriori catastrofi nazionali (il Ventennio, la morte della patria, l’occupazione tedesca, la guerra civile, i bombardamenti e il paese in macerie), si tornò a raccontare “la bella epoca” al grande pubblico – per riderne, ancora, ma con un’ombra di pietà e di nostalgia. Nel film di Mario Bonnard, Alberto Sordi, nei panni di Gastone, il ballerino con le basette e il frac, nella Roma degli anni Venti si arrabatta come un relitto del passato, fino a rubare il croissant del vicino di tavolo, al caffè, per placare i morsi della fame.
È il cinema a rappresentare meglio quell’epoca. Perché se il benessere era ancora dei felici pochi, e l’Italia – “la grande proletaria” – un paese di giovani, diseredati e analfabeti, il cinema era un divertimento, e poi anche un’arte, alla portata di tutti, e subito coinvolse – unico caso nella nostra storia culturale – le masse e le classi dominanti, i poveri e i ricchi, gli uomini e le donne. Nel 1915 c’erano cinematografi ovunque – dalle città ai borghi più sperduti. Roma aveva più di 50 sale, anche multischermo (oggi, 42.
Le altre chiuse, demolite, o divenute centri commerciali, sale bingo e supermarket). Edison aveva profetizzato che nel giro di dieci anni non vi sarebbero stati più libri: solo pellicole. Invece la Settima Arte rischia di essere stata la più effimera – durata appena cento anni. Ma allora chiunque poteva godersi i film. Vi erano sale per ogni classe sociale. Eleganti come teatri, cui si andava in abito da sera, mentre nei foyer si prendeva il tè e si danzava. Sale medie, più o meno come quelle che frequentiamo ancora. Oppure spartane come i baracconi delle marionette (il biglietto costava pochi centesimi). Le locandine, all’ingresso, erano, a volte, disegnate da pittori famosi. Il buio garantiva una zona franca – il regno della fantasia e della libertà. A tutti, ma specialmente alle donne: nello spazio reale della sala, come nel mondo immaginario delle storie proiettate sullo schermo (di eroine fatali e peccatrici, ma anche atlete, pioniere, forzute), potevano trasgredire ogni divieto, e vivere una libertà impensata. Chissà se per questo si usava il femminile, e si diceva “le films”.
Il cinema fu più popolare del fumetto – che pure nacque nello stesso 1895 (con la striscia The Yellow Kid, sul supplemento del «New York World»). Per la magia del buio, sì. Ma anche perché era muto (non silenzioso: in ogni sala suonava un pianoforte, quando non una vera orchestra, e la musica accompagnava emotivamente ogni storia). L’assenza della parola eliminava la barriera della lingua. Nessuno, al cinema, era straniero.
Si importava, si distribuiva. Il pubblico andava a vedere indifferentemente – o senza neppure saperlo – film italiani e svedesi, francesi e tedeschi, americani e inglesi. Pochi anni dopo quegli stessi popoli sarebbero stati indotti a massacrarsi in nome del nazionalismo. E a guerra finita, il cinema sarebbe diventato un’industria strategica: una merce da imporre nei mercati, distruggendo la concorrenza. Indifeso, sorpassato, il cinema italiano fu annientato, e scomparve per almeno un decennio.
L’alta società era cosmopolita, nella Belle Époque. Aristocratici e borghesi milionari soggiornavano a Parigi, svernavano in Costa Azzurra, studiavano in Svizzera, prendevano i bagni di mare al Lido, andavano alle terme in Germania – usavano con disinvoltura treni e piroscafi. Ignoravano le frontiere. Ma anche i poveri, che migravano ovunque intravedessero possibilità di lavoro.
E attori, attrici, fotografi, tecnici. Andavano, i nostri – là dove li chiamavano i soldi, e la fama; venivano, gli altri. La piccola Italia di Giolitti aveva già le sue Hollywood – Torino e Roma (Napoli, pure la piazza più vivace, produceva soprattutto per il mercato locale), con dozzine di teatri di posa e film in lavorazione a ciclo continuo (nel 2024, i film prodotti in Italia sono stati 262). Fu nel clima spensierato di una straordinaria avventura collettiva che poté brillare la meteora di una straniera come Diana Karenne. Arrivò a Roma nel 1914, non disse mai da dove. Sola, libera, misteriosa, in pochi anni divenne “la più affascinante” delle dive – e la più intraprendente, perché anche autrice, produttrice e regista delle sue storie – amata dagli spettatori per la sensualità moderna, e dalle spettatrici perché esempio di indipendenza. Ho raccontato la sua storia nel mio ultimo romanzo, Silenzio. La nostra époque è stata bella anche per lei.
Oggi e domani l’Università di Firenze ospita Effetto Belle Époque, Convegno di studi del dottorato di ricerca Pegaso in Storia delle Arti e dello Spettacolo Melania Mazzucco partecipa oggi (ore 17) in dialogo con Cristina Jandelli con l’intervento Focus Diana Karenne a partire da Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne (Einaudi)