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 2025  dicembre 03 Mercoledì calendario

Medea matricida, decide Euripide

La riscrittura fa parte dell’essenza del mito: non esiste in alcun luogo la «storia vera» dei personaggi che lo popolano. Esiste piuttosto uno schema di elementi base che garantiscono a una narrazione la sua riconoscibilità: entro questa cornice, il patrimonio mitologico si nutre di infinite, più o meno divergenti variazioni, introdotte per finalizzare un racconto a uno specifico discorso, letterario, filosofico, storiografico, politico. Va da sé che più una leggenda è diffusa e popolare, più si ramifica la sua trasmissione; più è documentata, più siamo in grado di ricostruirne le versioni, misurare gli scarti, mettere in sequenza le novità. Questa analisi differenziale rimane però lettera morta, o al massimo esercizio erudito, se non si associa alla ricerca del senso: ogni variante ha la sua origine in un’intenzione, che può essere estetica, di sviluppo della storia o della psicologia dei personaggi, oppure presupporre un retroterra filosofico, adombrare un contesto politico, riferirsi a un fatto storico. Svelando tale movente, si può scoprire qualcosa di interessante non solo sull’opera, ma anche sulla società che l’ha prodotta.
Da questo genere di indagine nasce Feroce Medea. La tragedia di Euripide di Federico Condello (il Mulino). Siamo davanti a una tra le figure del mito greco che più ha affascinato l’immaginario occidentale. Con un inevitabile effetto retroattivo, cioè di proiettare sulla Medea più celebre che ci sia giunta dall’antichità, quella di Euripide, un fascio di pregiudizi e aspettative dovuti a versioni successive, che hanno finito per «sovrascrivere» il personaggio costruito dal tragediografo greco. Condello risale invece la corrente della tradizione, nello sforzo di mettere il lettore nei panni dello spettatore del 431 a.C., anno in cui la Medea fu rappresentata ad Atene durante la competizione teatrale delle Grandi Dionisie.
La saga degli Argonauti era ben nota, ma prima di assistere al debutto, cosa sapeva il pubblico della principessa barbara giunta a Corinto come sposa di Giasone, il capo della spedizione? E quale immagine avrà conservato di lei, una volta calato il metaforico sipario? Nella gara, Euripide arrivò ultimo. Evidentemente la sua Medea non era piaciuta. Perché?
Per rispondere a queste domande, Condello parte dal testo euripideo, di cui offre una traduzione meditata ed elegante, non senza averlo prima smontato, pezzo dopo pezzo, in un ampio saggio introduttivo. La vera Medea non esiste, come s’è detto. Tuttavia, ci sprona l’autore, possiamo approssimarci alla vera Medea di Euripide, apprezzarla sgomberando il campo dalle pre-immaginazioni che condizionano la visuale. Possiamo immedesimarci nella sua prima performance, sapendo che a teatro «Atene mette in scena se stessa di fronte ad amici, mezzi amici e aperti nemici», e dunque nessuna scelta drammaturgica, dal soggetto allo sviluppo del plot, è innocente.
L’obiettivo è perseguito sfoderando un ampio spettro di argomentazioni, che attingono all’analisi testuale, alla psicologia drammatica, alla critica storica: non ci è possibile qui ricostruirne l’articolato percorso, ma ci focalizzeremo su una delle conclusioni più disarmanti. Con la prudenza necessaria quando si maneggiano le malsicure e discontinue testimonianze antiche, Condello presenta la Medea euripidea come la prima infanticida nella storia di questo mito: «Nulla prova, e anzi tutto nega, che il pubblico del 431 a.C. potesse aspettarsi una Medea assassina dei suoi figli». Questa immagine, per noi indissolubile dal personaggio, risulterebbe dunque un’audacissima invenzione euripidea, stagliata su uno sfondo in cui le altre canoniche attribuzioni di Medea (la maga, la straniera) scolorano in tiepidi atti di rispetto verso lo schema mitico di riferimento.
Condello mostra come Medea pensi, parli e agisca da «greca tra Greci», sfoggiando un repertorio linguistico e concettuale tutto interno alla dialettica della polis. Non è la strega che si vendica ricorrendo alle arti magiche di cui è maestra, né la straniera che reagisce all’oltraggio con barbarica ferocia. Men che meno è una donna accecata dalla gelosia. Il tradimento di Giasone, che la ripudia in favore della principessa che gli può garantire il trono e la espelle dalla comunità che l’ha accolta, non si consuma verso di lei, ma verso i valori di quella comunità, di cui lei è lucidissima interprete: «È un’integerrima greca old style, una portavoce convinta di un’etica che attinge alla più schietta tradizione aristocratica». Un’etica di classe, dunque, fondata sulla dike: «Lealtà di condotta, mutuo riconoscimento fra pari, fedeltà ai patti giurati, rispetto della parola data». Chi la infrange, come il vigliacco e sleale Giasone, merita la massima punizione: sopravvivere alla morte dei propri figli per mano della loro madre.
Non stupisce, allora, che Medea risulti, per la democratica Atene, una figura non solo raccapricciante, ma anche politicamente indigeribile. A maggior ragione alla vigilia del conflitto peloponnesiaco (431-404 a.C.), che avrebbe contrapposto la democratica Atene all’aristocratica Sparta, con conseguente parossismo delle intonazioni patriottiche. E non stupisce nemmeno che Euripide, uno dei critici più corrosivi del regime ateniese, abbia voluto una Medea «disegnata così», a rischio dell’impopolarità. In aggiunta, a rendere il tutto ancora più inaccettabile, sta il fatto che il manifesto antidemocratico sia brandito da una donna, per giunta capace di padroneggiare i codici di una cultura politica e istituzionale tutta declinata al maschile.
Medea non si esprime nel linguaggio degli esclusi: combatte da pari contro pari, sullo stesso terreno dei suoi nemici, e alla fine, su di loro trionfa. In scena, ma non nell’agone. E come avrebbe potuto? Ha messo in discussione, fino all’estremo, tutto quello che il cittadino medio aveva più a cuore. E tutto il discorso che i gruppi di potere dominanti avevano per lui allestito.
Si dice spesso che Atene ha inventato la democrazia, di cui il teatro era uno dei pilastri. Non si può però trascurare di aggiungere che della democrazia ha inventato anche le contraddizioni, e che il teatro era il luogo in cui andavano in scena. Quindi, nel pronunciare questa parola, così frusta e depotenziata, vale la pena di ricordarsi di Medea. Quella di Euripide.