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 2025  dicembre 03 Mercoledì calendario

Contrasto agli attacchi ibridi: la Nato è divisa (e gli Usa assenti)

La Nato si muove su un doppio livello rispetto alla Russia. Da una parte il segretario generale, Mark Rutte, in conferenza stampa, sollecita Vladimir Putini a raggiungere l’accordo con Donald Trump e Volodymyr Zelensky, affermando in modo perentorio, a uso e consumo del Cremlino, che l’ipotesi di ammettere l’Ucraina nell’Alleanza «non ha il consenso necessario».
Dall’altro lato, però, sta salendo di tono il confronto tra i 32 partner su una questione che si sta rivelando tanto cruciale quanto divisiva: come reagire all’escalation degli «attacchi ibridi» provenienti, o almeno questa è la convinzione generale, da Mosca?
Il tema è riemerso con clamore, lunedì, quando il Financial Times ha pubblicato alcune dichiarazioni rilasciate dall’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare dell’Alleanza. Secondo Cavo Dragone, la Nato dovrebbe essere più aggressiva per prevenire le incursioni dei droni sugli aeroporti; il sabotaggio informatico di uffici pubblici, banche, ospedali; le minacce agli impianti energetici, ai cavi sottomarini, alle reti di telecomunicazioni.
L’uscita dell’ammiraglio non è piaciuta praticamente a nessuno. C’è chi, informalmente, aveva subito fatto notare che l’espressione «attacco preventivo», scelta da Cavo Dragone, avrebbe scatenato la reazione di Putin e dei partiti europei più disponibili verso Mosca. Altri, invece, ora sostengono che Cavo Dragone abbia agito goffamente: avrebbe dovuto riportare le sue osservazioni al Consiglio del Nord Atlantico, l’organismo che riunisce i rappresentanti politici dei 32 partner, oppure direttamente al segretario generale.
Nella sostanza, però, il problema esiste. E non da ora. Già nel 2015 la Nato aveva istituito la Joint Intelligence and Security Division per analizzare le «minacce della guerra ibrida». Più di recente, in un documento del 3 febbraio 2025, la Nato ha elencato quali sono i cinque pericoli della «hybrid warfare»: disinformazione pilotata dall’esterno; cyber attacchi; pressioni economiche; dispiegamento di forze militari irregolari o regolari. Negli ultimi anni gli Stati dell’Alleanza hanno fatto netti progressi nella capacità di previsione e di contrasto.
Sempre più Paesi ritengono che non basti. Polonia, Olanda, Finlandia e Paesi Baltici chiedono ai militari un cambio di passo. Se occorre, bisogna essere in grado di colpire la fonte degli attacchi, senza aspettare di subirli. Come ha sottolineato lo stesso Cavo Dragone, però, bisognerebbe allentare il vincolo fondativo della Nato: un’organizzazione difensiva che non può condurre «raid preventivi». Ministri e generali stanno allora cercando di capire quali siano i margini di manovra.
Per adesso siamo in un cantiere aperto, popolato più da idee che da soluzioni concrete. I finlandesi propongono «l’autonomia strategica sull’informazione», vale a dire controlli più stretti sui social. Gli olandesi suggeriscono di infiltrare agenti segreti nel mondo degli hacker: è una misura che hanno introdotto nel loro Paese, con la «Defense Cyber Strategie 2025». Molto più difficile, invece, immaginare come colpire le basi da cui partono i droni. Forse si potrebbe intercettarli ancora prima che entrino nel territorio Nato: un’ipotesi come un’altra.
Ma tutta questa discussione tecnico-militare è sovrastata da un ineludibile fattore politico: l’atteggiamento accomodante degli Stati Uniti verso Putin. Nella riunione del primo dicembre, l’ambasciatore Usa Matthew Whitaker è stato piuttosto sbrigativo con gli altri 31 colleghi. Nessun cenno a Cavo Dragone, ma l’invito a «lasciar lavorare i negoziatori americani». Ci penseranno loro a tenere conto delle «linee rosse» fissate dagli ucraini. La Nato, ha assicurato Whitaker, sarà consultata se nel negoziato con Putin emergeranno materie di sua competenza.
Interessante notare come questi concetti siano poi stati ripetuti, quasi alla lettera, da Rutte davanti ai giornalisti. Senza citare la fonte, naturalmente.