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 2025  dicembre 02 Martedì calendario

Allegra Gucci: «Sentii l’amica che la plagiava dire a mia madre di farci la guerra. Non mi ha mai chiesto di perdonarla ma vorrei poter occuparmi di lei»

«Nei suoi diciassette anni di carcere a San Vittore le uniche persone che si sono prese cura di nostra madre siamo state io e mia sorella, dimostrandole affetto incondizionato. Oggi vorremmo semplicemente occuparcene noi, senza altre persone in mezzo, per farle vivere questi anni che le restano in un contesto sereno». Allegra Gucci, 44 anni, aveva 14 anni quando suo padre Maurizio Gucci venne assassinato e sua madre, Patrizia Reggiani, fu condannata come mandante. Da allora la sua vita è stata segnata la lutti, processi, carcere: la storia di Allegra e Alessandra, la sorella maggiore è un filo intrecciato di dolore, lealtà, rabbia e responsabilità. «Il mio è il percorso di una donna che ha passato trent’anni della propria vita a cercare di proteggere chi l’ha ferita di più», dice Allegra, oggi madre di due figli, avuti dal marito Enrico («per ironia della sorte ha lo stesso cognome di mia nonna, una donna orribile»).
Allegra, non c’è spazio per il risentimento?
«Credo di averlo dimostrato con i fatti. Non c’è stata volta in cui io e mia sorella abbiamo saltato la visita in carcere. In tutti questi anni abbiamo dato prova come, nonostante tutto, siamo sempre state lì per nostra madre, per proteggerla».
Come può descrivere il legame complesso che la unisce a sua madre?
«Io e mia sorella non abbiamo mai smesso di credere nella sua innocenza. Il nostro è un legame complesso ma carico di sentimento, profondo, nonostante le sue fragilità».
L’ha perdonata?
«Per me il perdono è un percorso personale, non è solo una parola, ma un processo che richiede consapevolezza e responsabilità. Anche se mia madre non mi ha mai chiesto di perdonarla, vorrei occuparmi di lei».
Come mai siete rimaste sempre accanto a lei?
«Perché è nostra madre. Sapevamo perfettamente quale accusa pendesse su di lei, ma allo stesso tempo la vedevamo come una donna ammalata, trasformata da un tumore al cervello, resa furiosa, fragile, soggetta a crisi epilettiche. Non l’ho mai idealizzata, ma ho sempre pensato che questa vulnerabilità l’avesse resa una preda perfetta anche per sé stessa».
Nel suo libro scrive: «Sono figlia di un padre assassinato, una madre incarcerata e nipote di una str...».
«Una sequenza concatenata.
Anche io e mia sorella siamo state incarcerate per 17 anni: a turno, due volte a settimana, venivamo a Milano dalla Svizzera per portarle il pacco. Giornate polverizzate per un’ ora di colloquio».
Come erano i colloqui?
«C’erano volte in cui era felice di vederci. Altre erano insulti, perché il pacco precedente non andava bene. C’era sempre un motivo per rimproverare, eppure io continuavo ad andare. È una forma di amare che non ha niente di zuccheroso: è un amore faticoso, adulto, che accetta di esporsi e soffrire pur di proteggere la donna che mi ha messo al mondo».
Gli episodi più brutti?
«Non godeva di favoritismi, ha sempre condiviso la cella con altri ed è stata vittima di atti vessatori: una compagna di cella si sedette sopra al suo furetto uccidendolo. In cortile i primi tempi era diventata mira delle detenute, per questo le venne concesso di utilizzare il giardino in orari differenti, questa era l’unica concessione».
Tentò il suicidio.
«Dopo che venne trasferita ad Opera. Per protesta tentò di impiccarsi: ero in sala colloqui e mi avvisarono che era in fin di vita. Nonostante tutto non mi sono mai smarcata. Ho continuato ad andare ai colloqui, a esserci, anche quando era durissima. Perfino sul piano patrimoniale, io e mia sorella abbiamo provveduto a lei per tutti i 17 anni di carcere e oltre. Invece di recidere il legame con chi ha sconvolto la vita, ci siamo messe tra lei e il mondo».
Siete state affidate alla nonna materna.
«Una donna malvagia, ci faceva vivere nel senso di colpa manipolandoci. Quando ho conosciuto mio marito gli ha messo alle costole un investigatore: temeva sfuggissi al suo controllo».
Sua madre era stata a sua volta vittima di sua nonna?
«Ai colloqui ci chiedeva se ci picchiava. Lei ne aveva prese tante».
In cella vostra madre ha stretto amicizie pericolose.
«Con l’esposto fatto nel 2021 abbiamo denunciato uno schema che conoscevamo: nostra madre che si allontanava da noi circondata da persone che non avevano a cuore il suo bene. In particolare la frequentazione di Loredana Canò, conosciuta in carcere. Già nel 2016 mia nonna aveva chiesto e ottenuto la nomina di un amministratore di sostegno per proteggerla. Ma le cose non sono andate come dovevano, l’istituto della tutela ha fallito, solo grazie al nostro esposto alla Procura di Milano e al grande lavoro svolto dalla stessa, è stata portata alla luce la verità».
Cosa vi ha portate a questo punto?
«Temevamo che fosse manipolata. Un giorno ha provato a chiamare Alessandra, che non le aveva risposto e, invece di riagganciare, è rimasta in linea. La segreteria ha registrato la voce della sua amica Canò che la incitava a dichiarare guerra a noi figlie e a cercarsi il miglior avvocato possibile. In quel momento abbiamo avuto la conferma. Poco tempo dopo comparve l’avvocato Daniele Pizzi, presentato della Canò».
Quando avete deciso di intervenire?
«Dopo che nostra madre era stata isolata, nessuno nemmeno noi figlie, potevamo parlarle. E aver scoperto poi una polizza sulla vita da 6 milioni di euro, in cui i beneficiari erano persone della cerchia Canò, Pizzi e il consulente finanziario Marco Chiesa ci fece preoccupare per la sua incolumità».
Il risultato?
«L’esposto ha portato dopo due anni di indagini alla sentenza di condanna di Loredana Canò e Marco Chiesa per circonvenzione di incapace. L’avvocato Pizzi ha preferito patteggiare e Ilaria Mazzei, Il giudice tutelare dell’epoca, fu trasferita».
La richiesta di occuparvi di lei è già stata respinta dal tribunale, perché insistete?
«Perché già di fatto ce ne occupiamo e sarei in grado di svolgere il ruolo di amministratore di sostegno, in totale trasparenza, avvalendomi di tutti i professionisti del caso. Sono laureata in Giurisprudenza, ho le competenze necessarie e lo farei a titolo gratuito. Oggi il Tribunale riconosce annualmente all’ attuale amministratore di sostegno “un’ equa indennità” di 220 mila euro».
Cosa vi è stato detto?
«In quanto figlie di una madre “indegna” non ci possiamo formalmente occupare di lei. In realtà, l’istituto dell’amministrazione di sostegno nasce per favorire il ruolo dei familiari, e in primis dei figli, nel prendersi cura dei genitori non più pienamente capaci; e la sua gratuità, prevista come principio, viene di fatto tradita quando si riconoscono compensi annuali altissimi a professionisti esterni. Un caso che non riguarda solo noi, ma molte altre famiglie».
Ci sono conflitti di interesse tra voi e vostra madre?
«No, non c’è alcun conflitto d’interesse. Fino ad ora abbiamo avuto tutto da perdere ma ci siamo sempre state e lo abbiamo dimostrato con un esposto che ha messo a rischio la nostra sicurezza».
Che vita conduce oggi vostra madre?
«Ha difficoltà a muoversi da sola e usa la carrozzina. Ma dentro di sé continua a sognare i “vecchi tempi”: le feste, i viaggi, quella vita mondana che per lei è stata identità, rifugio e in parte, condanna».
I suoi figli la vedono?
«Certo, non è la nonna che fa i biscotti. Ma non lo è mai stata in vita sua».
Il suo stato d’animo oggi?
«Se la mia storia parla di dolore, la mia vita vuole parlare di responsabilità: io sono il risultato di ciò che ho subìto, ma il mio futuro sarà il risultato di ciò che ho scelto».