il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2025
Intervista a Francesco Acquaroli
È un duro.
Che so’ io?
A quanto pare, un duro.
Ma quando? Ma cosa?
È il suo stile.
Come succede spesso, se funzioni in un ruolo, ti richiamano per quello: le produzioni non hanno margini per poter rischiare.
Vanno in automatico.
Se mi arriva l’ennesimo copione nel quale devo apparire un “duro”, un “che palle” mi scappa; non è che dico sempre “no”, come tutti gli attori sono bulimico.
Ha un curriculum importante.
Addirittura.
A quanto pare.
(Zitto) Mi scordo ciò che ho fatto; se mi chiedono il curriculum penso sempre “oddio, e ora?”.
(E ora Francesco Acquaroli è un nome associato a un viso. Per la tv è uno degli amici di Rocco Schiavone nella serie tratta dai libri di Manzini, ma come spesso accade il casuale è solo una metafora per chi ha scarsa sostanza. Per Acquaroli la sostanza nasce da aver recitato per Nanni Moretti, Abel Ferrara, Costa-Gavras; per aver condiviso il palco con Franca Valeri o aver vissuto la regia di Luca Ronconi. Adesso è in scena con “Rosencrantz e Guildenstern sono morti” di Tom Stoppard).
Ha raggiunto la fama tardi.
Da ragazzino la sognavo, la volevo, perché lavori di più, ma avrei gestito meno bene il clamore; (ci pensa) come maestro ho avuto Antonio Pierfederici, bravo attore, eccellente insegnante. Lui, a proposito del nostro mestiere, ripeteva che il grande ostacolo per la carriera è il narcisismo.
Ostacolo o stimolo?
Per un attore è letale.
Senza “se”.
Inizi a vederti bello, con una bella voce, affascinante, con un io interiore che sobilla certe tendenze. E ti rovini.
Per anni avrà pensato “come fanno a non capire quanto sono bravo”…
È vero; (beve un sorso di vino, ci pensa) è anche una questione di moda.
Cioè?
Quando ho iniziato è uscito Intervista (1987) di Federico Fellini con Sergio Rubini e per un periodo tutte le produzioni cercavano attori simili a Rubini; io che ho questo aspetto più solido, venivo scartato a priori. Così ho iniziato con il teatro.
Non le è andata malissimo, ha lavorato con dei totem alla Ronconi.
Genio totale, un maestro, dal quale però bisognava schermarsi.
Tradotto.
Il pericolo era andarci sotto, non pensare ad altro, tramutare Ronconi in ossessione.
Ha visto e vissuto colleghi ossessionati.
Certo, mentre devi mantenere, sempre, un margine di indipendenza dentro al quale mandi a quel paese chiunque.
Ha mandato a quel paese Ronconi?
No, peggio.
Cos’è peggio?
Non sopporto i potenti, l’autorità mi fa rodere.
Pure i professori di scuola?
Anche, ovvio!
E quindi ai tempi di Ronconi?
Ho sviluppato un rapporto tremendo con i capi dello spettacolo. Mi hanno cacciato.
Argomenti di lotta?
In primis le paghe: se non sei un big, vieni schiavizzato.
All’inizio della carriera, qual era la sua urgenza?
So solo che mi emozionavo al cinema e in teatro; piano piano ho iniziato a domandarmi se era quella la mia strada.
Nessuna tradizione familiare?
Papà avvocato, mamma insegnante; papà sognava di diventare attore e dirigeva la compagnia teatrale dell’università La Sapienza; poi non contento metteva su degli spettacoli a casa e obbligava mamma a interpretare Giulietta o Desdemona; se era Desdemona la rimproverava perché non restava abbastanza seria: “Che cazzo ridi, sei morta!”.
Perfetto.
Tra i compagni di Giurisprudenza aveva il fratello maggiore di Monica Vitti ed è stato proprio papà a farla esordire, a quindici anni.
Allora un po’ di “tradizione” c’è…
All’inizio, poi ho continuato da solo; le emozioni che provavo in poltrona non erano paragonabili a nessun altro aspetto della mia esistenza. Neanche gli amici.
Sarà stato giudicato anomalo.
Può darsi.
Anomalo non dentro casa.
(Sorride, a mezza bocca) In casa mia le scelte anomale sono state altre.
Quali?
Le mie sorelle negli anni 70 sono entrate ne “I bambini di Dio” (movimento religioso nato negli Stati Uniti). Lì hanno cambiato nome e se ne sono andate per circa trent’anni.
Chissà i suoi genitori…
Mio padre le desiderava suore; con lui non avevo un buon rapporto, quasi sicuramente i problemi con l’autorità arrivano dal nostro vissuto.
Questa è una risposta da chi ha fatto analisi con un terapista.
È così. E dentro ho una rabbia non domata.
Allora il cinema ha ragione.
Non sopporto il senso di ingiustizia, non riesco a mettere da parte alcuni episodi. Invece la vita non va presa così di punta.
Ha fatto il ‘77?
No, troppo piccolo; (pausa) la mia generazione più che dalla politica è stata devastata dalla droga.
Lei?
Ripeto: le emozioni arrivavano dal teatro, solo che non l’avevo pienamente capito.
Il palco le dà ansia?
(Stupito) A me?
Quindi, no.
Non capisco proprio i colleghi terrorizzati, quelli che soffrono prima del sipario. Se li vedo, ogni volta mi domando come possano fare questo lavoro.
Non li capisce.
Io ho la carica agonistica.
Qual è il match?
Sfidare il pubblico a interessarlo alla storia che sto per raccontare. È come una partita di calcio.
Giocava a pallone?
Sì, in attacco. Però mi sono subito rotto i coglioni.
Andava allo stadio?
Poco, mai stato tifoso. Anzi, il tifo mi repelle, ci vedo dentro qualcosa di mistico.
È laico.
Mi considero un vetero-illuminista.
Neanche il teatro sarà una missione.
(Quasi sbotta) Missione de che? Ma per favore.
Alcuni suoi colleghi lo interpretano così.
In quei casi so’ scemi. Poracci.
Chiaro.
Da ragazzo il padre della mia fidanzata era un famosissimo cardiochirurgo pediatrico. Un genio totale. Eppure era una persona semplice, carina…
Qual è la morale?
Che già quando frequentavo la scuola di teatro, c’erano allievi che se la credevano, si atteggiavano da mistici. Non li sopportavo e pensavo al cardiochirurgo; (pausa) quei colleghi mi suscitano pena, li compatisco.
Magari sono bravi.
E qui scatta un perfetto “sti cazzi”.
Lo “sti cazzi” è una religione fondata da Antonio Manzini e dal suo personaggio Rocco Schiavone.
Manzini mi piace tantissimo, eppure lo conosco poco di persona.
Ma da ragazzo, per sedurre, avrà giocato il ruolo dell’attore sofferente.
Lì è vero.
Ha funzionato?
Tantissimo, ma dentro di me sapevo che era un bluff.
Negli anni passati, dal cinema, si è sentito valutato dall’alto al basso?
Eccome; (cambia tono, più profondo) nel cinema c’è un perbenismo, un conformismo che non sopporto. E si basa sul nulla.
La morale?
Quella dell’attore è una professione come tante; anzi tantissime altre sono più pericolose e faticose; aveva ragione Vittorio Gassman quando ripeteva “sempre mejo che lavora’…”.
Angolo totem: ha recitato per Abel Ferrara.
Lo adoro, uomo di una simpatia non comune.
Ferrara non nasconde i suoi vecchi problemi con la droga.
Per disintossicarsi ha frequentato tante comunità, nessuna ha mai funzionato. Fino a quando ha risolto con quella di Pozzuoli dove la terapia è cantare brani napoletani. Il risultato è che se vai a cena con lui, a un certo punto, inizia a intonarle tutte, da ’O surdato ‘nnammurato a Funiculì funiculà… Uno spettacolo.
Ha mai pensato di occuparsi di regia?
Sono troppo pigro.
È stato a Cannes per Dogman.
Una rottura de palle.
E abbiamo sistemato Cannes.
Sono andato con mia moglie, biglietto e tutto il resto pagato da Matteo Garrone, un gran signore, eppure lei doveva stare lontana. Separati. Ci siamo ritrovati alla festa serale.
Sarà stata bella.
Fai il red carpet, vai alla proiezione e poi alla fine ti portano nella sala delle cerimonie dove non c’è niente da mangiare, neanche due noccioline. Io e mia moglie, vestiti da gran sera, per la fame siamo finiti da un egiziano che vendeva kebab.
A Cannes avrà incontrato qualcuno dei suoi idoli.
John Savage, un mito, Il cacciatore è uno dei miei film preferiti. Ho provato a parlarci, ma non capiva niente.
Ha mai temuto qualcuno?
Con un padre bipolare ho imparato a comprendere le situazioni e ad adeguarmi.
Torniamo alla carriera: ha iniziato con Casa Vianello.
Persone di una simpatia rara: lui e lei unici già alla lettura del copione. E si adoravano.
Quando si è rivisto in tv?
Non è semplice.
Avrà avvertito parenti e amici: “Sono in tv…”
Non me ne frega niente, non invito nemmeno quando sono a teatro.
Mai?
Non sopporto neanche quelli che scrivono un libro e poi te lo danno. Che ne sai delle mie letture?
Quando la riconoscono per strada?
Fa piacere.
Abbraccia le persone?
Molto.
Muccino abbraccia sul set.
All’inizio mi temeva e teneva a distanza. Poi ha capito che non sono pericoloso.
Ha mai abbassato lo sguardo?
Sarà capitato, ma non ricordo quando; (alza di un tono) ho smesso di giocare a pallone perché nel calcio il maschio dà il peggio di sé. E mi vergognavo.
Sempre totem: Franca Valeri.
Con lei ho lavorato in uno spettacolo per la regia di Patroni Griffi. Altissimi livelli. Due esseri superiori, di una qualità umana difficile da trovare: persone che hanno vissuto la miseria del fascismo e della guerra e la stagione del riscatto.
Da chi ha imparato?
Da Vianello ho capito quanto è importante la gentilezza verso la propria consorte. Mio padre non era così. E aggiungo l’approccio giocoso al lavoro.
E poi?
I miei modelli sono Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Vittorio Caprioli. Caprioli in teatro fermava l’aria.
I colleghi cosa dicono di lei?
Che ne so? Però c’è rispetto, pure troppo.
Ha mai rubato?
(Pausa, ride) Sì, da ragazzo: una locandina di Randone al Quirino.
Lei è omonimo del presidente delle Marche.
In due ristoranti marchigiani ho prenotato a mio nome. Al telefono tutti ossequiosi. Quando mi hanno visto dal vivo ci sono rimasti male.
Lei chi è?
Un cazzaro laico.