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 2025  novembre 30 Domenica calendario

I bambini del bosco dividono l’Italia. Metà del Paese si schiera con la famiglia

Il caso della famiglia anglo-australiana che da anni viveva nei boschi di Palmoli, in Abruzzo, ha acceso un dibattito nazionale come poche volte accade. La decisione del Tribunale dei minori di allontanare i tre figli – e temporaneamente la madre – dal padre, collocandoli in una casa protetta, ha polarizzato l’opinione pubblica su due fronti che sembrano inconciliabili: da una parte la libertà di scelta e di stile di vita alternativo, dall’altra la protezione e i diritti del minore. Secondo l’ultimo sondaggio di Only Numbers, quasi un cittadino su due (49,8%) si schiera apertamente a favore della famiglia e contro la decisione dei giudici. Per molti, il nucleo familiare rappresenta una scelta di vita autentica, un ritorno alla natura come antidoto a un modello sociale percepito come alienante.
Tra i sostenitori di questa posizione ci sono i difensori dell’educazione «rurale», fatta in casa, modellata sui ritmi naturali e non su quelli standardizzati della scuola e della società. A rendere la famiglia ancora più «simpatica» agli occhi di una parte dell’opinione pubblica è la percezione, confermata da più testimonianze, che si trattasse non di un contesto di miseria, ma di una scelta consapevole: bambini curati, genitori presenti, vita essenziale, ma non degradata. Un esperimento di autosufficienza più che un caso di abbandono. Sul fronte opposto troviamo il 35,2% degli intervistati, convinti che la tutela del minore debba prevalere su tutto. È la parte del Paese che guarda ai fatti con occhi pragmatici: la casa giudicata fatiscente, priva di servizi essenziali; l’assenza di elettricità, acqua corrente e sicurezza strutturale comporta possibili e facili rischi concreti per la salute e l’incolumità dei bambini.
Molti sottolineano come un modello off-grid (essere completamente autosufficienti e scollegati dalla rete tradizionale di utenze, come energia elettrica, acqua e gas) se portato all’estremo possa tradursi in una crescita povera di stimoli, priva di socializzazione e distante dai sistemi di controllo che garantiscono diritti fondamentali come istruzione, salute, integrazione. Del resto per l’articolo 30 della nostra Costituzione «è dovere e diritto – sottolineando prima il dovere – dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, …». Il vulnus se vogliamo è proprio l’interpretazione del «come» questi bambini siano stati educati, curati, istruiti e inseriti nella società dai loro genitori Nathan e Catherine. Il Paese, insomma, è profondamente diviso: il 44,1% ritiene che il Tribunale dei Minori abbia oltrepassato i propri limiti; il 37,7% sostiene che abbia semplicemente applicato le norme, come previsto dalla legge.
A peggiorare la situazione ci ha pensato il rumore mediatico: campagne social roventi, attacchi alla magistrata, mobilitazioni spontanee pro-famiglia. Ancora una volta, il dibattito pubblico ha fatto ciò che fa sempre: semplificare ciò che semplice non è. Tuttavia questa storia – al di là della cronaca – ci mette davanti a domande più profonde, che interpellano il nostro rapporto collettivo con la genitorialità, la libertà individuale e il ruolo dello Stato. Dove finisce il diritto dei genitori di educare secondo i propri valori e dove comincia il diritto del minore a condizioni di vita sicure e conformi agli standard sociali? È una domanda senza risposte immediate, perché tocca la sfera più delicata dell’esperienza umana: crescere ed essere cresciuti. Non stupisce, dunque, che un italiano su due ritenga che i genitori siano «parzialmente» liberi di adottare uno stile di vita alternativo per i figli (49,7%). Interessante il dato del target tra i 24 e i 44 anni, cioè tra chi oggi ha figli piccoli o potrebbe averli, la percentuale sale al 59,7%; e tra i 18 e i 24 anni dove la percentuale sfiora l’80% (78,9%). Segno che la generazione che si confronta ogni giorno con l’educazione è quella più sensibile alla necessità di trovare un equilibrio.
Nel campione nazionale solo il 26% sostiene invece la libertà totale dei genitori, mentre il 14,1% ritiene che debba prevalere la norma sociale,
l’insieme delle regole condivise che definiscono ciò che consideriamo accettabile per un minore nella nostra società. A complicare ulteriormente il quadro, la vicenda è ormai terreno fertile per la politica. Opinionisti, commentatori e alcuni rappresentanti istituzionali hanno iniziato a evocare confronti con altre situazioni sensibili: dai minori che vivono nei campi Rom – dove, denunciano in molti, i controlli e gli eventuali allontanamenti non sarebbero altrettanto solerti – ai tragici casi, rari ma devastanti, di bambini uccisi dalle proprie madri nonostante segnali di disagio familiare fossero già noti ai servizi sociali. Confronti delicati, che portano acqua all’idea – condivisa da una parte della popolazione – che esista un doppio standard nell’intervento delle istituzioni: troppo tardi dove il rischio è reale, troppo presto dove si contesta uno stile di vita. Il caso di Palmoli non è solo la storia di una famiglia nel bosco. È lo specchio di un Paese attraversato da tensioni profonde: tra desiderio di libertà e bisogno di sicurezza, tra modelli di vita che cambiano e istituzioni che faticano a tenere il passo.
Nel giudicare questa vicenda, ciascuno di noi finisce per interrogare la propria idea di infanzia, di comunità, di responsabilità. Non è – e non sarà mai – una questione di «giusto» o «sbagliato». È una questione di confini: quelli tra autodeterminazione e tutela, tra scelta personale e bene collettivo, tra natura e società. E i confini, si sa, sono sempre i luoghi più difficili da abitare; tuttavia, sono anche quelli in cui una comunità, se vuole crescere, è chiamata a guardarsi dentro – senza slogan e senza polarizzazioni – e a capire chi desidera essere «da grande».