corriere.it, 29 novembre 2025
L’oro d’Italia, storia della riserva aurea di Bankitalia: dalle razzie naziste alle 2.452 tonnellate di oggi
Per arrivare al cuore dell’oro italiano bisogna scendere. Giù, sotto i marmi severi di Palazzo Koch, oltre le stanze dove arrivano attutiti persino i rumori di via Nazionale, oltre le porte blindate che non si aprono mai con una sola chiave, oltre botole, scale e contro-scale. Nessuna scena da kolossal hollywoodiano: corridoi sobri, luci al neon, registri, sigilli, controlli incrociati. Ma, alla fine, una porta più sorvegliata delle altre introduce nelle stanze del tesoro.
Sugli scaffali, ordinati come faldoni di un archivio, si allineano migliaia di lingotti. Ognuno con la sua «marca», la sua storia, la sua provenienza: americani, sovietici con la falce e il martello, tedeschi con l’aquila imperiale. E, nel caso dell’oro rientrato dopo la guerra, anche con la svastica. Un catalogo metallico del Novecento.
Oggi la Banca d’Italia è il quarto detentore di riserve auree al mondo (dopo Stati Uniti, Germania e Fondo monetario internazionale): 2.452 tonnellate, per lo più lingotti (95.493) e, per una parte minore, monete. L’oro è parte integrante delle riserve ufficiali del Paese, un pilastro che contribuisce a rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano e, da oltre vent’anni, della moneta unica. È un tesoro che non serve a «comprare cose», ma a stabilizzare aspettative, dare credibilità, rassicurare i mercati quando le acque si fanno agitate.
Ma quel metallo così immobile ha avuto, negli ultimi cent’anni, una vita movimentatissima.
Dalle origini alla guerra: crescere, perdere, ricostruire
La storia comincia nel 1893, quando la fusione della Banca Nazionale del Regno d’Italia con la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito crea la Banca d’Italia. Nasce un unico istituto di emissione, con una sua dotazione iniziale d’oro. Da allora, e fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, le riserve crescono: il Paese si industrializza, il commercio estero aumenta, parte della ricchezza si trasforma in oro di banca centrale.
Poi, arriva la guerra. E con la guerra arrivano i rischi. Già all’inizio del conflitto, Mussolini comprende che Roma è troppo esposta: l’idea è trasferire il grosso dell’oro in un luogo più riparato, lontano dai bombardamenti. Viene scelta l’area dell’Aquila. Un complesso industriale in cemento armato, ex conceria militare poi passata alla Snia Viscosa e infine semiabbandonata, viene riconvertito: nasce l’Officina carte valori dell’Aquila, destinata a diventare, anche, deposito sicuro per il metallo.
Non succederà mai. Nel 1943 l’oro non c’è più da spostare: sarà razziato dai tedeschi a partire dal 22 settembre. In mezzo, si consuma il passaggio forse più drammatico di questa storia.
Settembre 1943: il coraggio in grisaglia
L’8 settembre è l’armistizio, la fuga del re e del governo a Brindisi, il vuoto di potere nella capitale. In pochi giorni Roma passa sotto controllo tedesco; nel Nord affluiscono dieci divisioni della Wehrmacht che presidiano nodi ferroviari e strade. Per i nazisti, appropriarsi dell’oro della Banca d’Italia è una tentazione troppo grande.
A Berlino si apre una vera e propria gara interna per mettere le mani sul tesoro di via Nazionale. Si muovono in quattro: Herbert Kappler, ufficiale delle SS, futuro responsabile della strage delle Fosse Ardeatine; Hermann Göring, capo della Luftwaffe e regista dello sfruttamento economico dei Paesi occupati; Walter Funk, ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank; e Rudolf Rahn, ambasciatore del Reich presso la Repubblica sociale italiana, il diplomatico più abile sul terreno italiano.
Ognuno ha una strategia diversa: Göring vorrebbe portare tutto in Germania come bottino di guerra; Rahn preferisce che l’oro resti formalmente in mani italiane, magari trasferito al Nord e messo a disposizione di Mussolini «alleato», pur sotto stretto controllo tedesco. Nel frattempo, il ministro degli Esteri Ribbentrop punta a ritagliarsi una quota propria: quel «tesoro di Ribbentrop» che più tardi seguirà dirottamenti e nascondigli tutti suoi.
Dall’altra parte, a difendere il caveau, non ci sono militari, ma impiegati e dirigenti in giacca scura. Il governatore Vincenzo Azzolini, il vicedirettore generale Niccolò Introna, il cassiere centrale Fabio Urbini. Gente che lavora alla scrivania, non nei bunker. Ma che in quei giorni capisce di avere sulle spalle qualcosa che assomiglia, molto, a una responsabilità storica. È Urbini a proporre l’idea che cambierà il destino di una parte dell’oro: nasconderlo nel caveau stesso.
Nella notte tra il 19 e il 20 settembre 1943, una parte consistente delle riserve – circa 52 tonnellate su 119 – viene trasferita in una intercapedine adiacente alla «sacrestia», il locale dove è custodito il metallo. Una stanza di servizio, costruita per ragioni di sicurezza. I muratori vengono fatti lavorare in fretta, si tira su un muro, si asciuga la calce ancora fresca con ventilatori e lampade. La porta che dava accesso all’intercapedine scompare alla vista. Contemporaneamente, negli uffici si costruisce un’altra difesa: quella dei numeri. Viene simulata una movimentazione contabile, come se quella stessa quantità di oro fosse stata inviata mesi prima alla filiale di Potenza, in territorio ormai prossimo a cadere sotto controllo alleato. Se i tedeschi avessero controllato i registri, non avrebbero trovato discrepanze.
Il mattino del 20 settembre arriva la richiesta ufficiale dell’ambasciata tedesca: l’oro va ceduto. Azzolini insiste sulla necessità di riunire il direttorio della Banca, prende tempo, tratta parola per parola. Ma una verità amara si impone: l’equilibrio di forza è inesistente, la città è occupata, i nazisti hanno in mano perfino i documenti dello Stato maggiore sul reale ammontare delle riserve. Alla fine, la Banca d’Italia deve cedere. Ma non tutto è perduto.
Da Roma a Milano, da Milano a Fortezza
Il 22 e il 28 settembre 1943 l’oro «ufficiale» lascia Roma: due convogli ferroviari trasferiscono verso Milano circa 119 tonnellate di metallo prezioso. Viene stoccato nella filiale della Banca d’Italia, con i tedeschi a pretendere una delle tre chiavi necessarie per aprire la “sacrestia”. Il direttore Francesco Sforza ottiene, almeno, che in cambio venga ritirata la guardia armata tedesca davanti al caveau. Ma la partita non è finita.
Qualche mese dopo, su pressione di Göring e con il via libera del ministro delle Finanze della Rsi, Domenico Pellegrini Giampietro, l’oro viene trasferito più a Nord, nel forte di Fortezza, in Alto Adige. È un complesso militare in una valle dell’Isarco, sotto pieno controllo tedesco dopo l’8 settembre. Qui i lingotti vengono sistemati in una caverna, dapprima murata e poi chiusa con una porta corazzata. Formalmente sono ancora di proprietà della Banca d’Italia. Di fatto, sono nelle mani del Reich.
L’accordo di Fasano e i treni per Berlino
Nel gennaio 1944, Göring torna alla carica. La Germania ha bisogno di oro per pagare fornitori, compensare transazioni, tenere in piedi, per quanto possibile, l’impalcatura finanziaria dello sforzo bellico.
Il 5 febbraio, sulle rive del Garda, nella località di Fasano, viene siglato l’accordo destinato a segnare il destino dell’oro italiano: la Repubblica sociale italiana «mette a disposizione» l’oro della Banca d’Italia per contribuire alle spese di guerra comuni. Dal punto di vista giuridico, è presentato come una decisione sovrana del governo di Salò; nella sostanza, è il sigillo su una consegna imposta.
Da Fortezza parte il primo treno, il 29 febbraio 1944: circa 50 tonnellate dirette alla Reichsbank di Berlino. Una parte – circa 8 tonnellate – viene dirottata subito al Ministero degli Esteri, alimentando il famoso «tesoro di Ribbentrop»; il resto entra nei forzieri centrali della banca tedesca.
Un secondo invio, nell’ottobre dello stesso anno, aggiunge altre 21 tonnellate. In totale, dalle montagne altoatesine al cuore del Reich viaggiano circa 71 tonnellate del nostro oro.
La miniera di Merkers e il Gold Pool
Nel febbraio 1945, quando la guerra è ormai sull’orlo della disfatta tedesca, Berlino decide di spostare le riserve della Reichsbank in un luogo più difficile da raggiungere: una miniera di potassio a Merkers-Röhm, in Turingia. Una cattedrale sotterranea dove finiscono lingotti, casse di banconote, ma anche opere d’arte.
Nell’aprile dello stesso anno, le truppe americane scoprono il deposito. Fanno saltare la porta blindata della galleria, si ritrovano davanti a oltre 200 tonnellate di oro proveniente da mezza Europa. Quel metallo, insieme ad altre partite recuperate dalle nazioni neutrali che avevano negoziato con il Reich, finisce in un unico «calderone»: il Gold Pool, la riserva gestita dalla Commissione tripartita (Stati Uniti, Regno Unito, Francia) con l’obiettivo di restituire almeno in parte l’oro monetario ai Paesi depredati.
L’Italia, inizialmente esclusa in quanto ex Paese dell’Asse, riuscirà passo dopo passo a rientrare nel perimetro. Dopo la cobelligeranza iniziata il 13 ottobre 1943 e la firma del Trattato di pace, nel 1947 viene ammessa a presentare le proprie richieste. Da quel momento comincia una lunga trattativa: da una parte la rivendicazione di 71 tonnellate trafugate; dall’altra la logica del riparto proporzionale tra tutti i danneggiati.
Alla fine, tra il 1947 e il 1998, l’Italia riceverà dal Gold Pool poco meno di 47 tonnellate, circa il 66% dell’oro perduto. Il resto si perde nelle compensazioni dovute ad altri Paesi, nelle difficoltà di ricostruire con precisione il percorso di ogni lingotto, nella decisione politica di chiudere un capitolo.
Ci vorranno quindi cinquantacinque anni, dall’autunno del 1943 all’ultima assegnazione del 1998, perché la vicenda trovi una conclusione, pur parziale.
Il “tesoro di Salisburgo” e l’uomo dei documenti
In mezzo, non mancano episodi da romanzo. Uno dei più curiosi riguarda proprio una parte del «tesoro di Ribbentrop». Quelle tonnellate destinate al Ministero degli Esteri tedesco vengono spostate in Austria, nascoste tra castelli e cantine nel Salzkammergut, vicino a Salisburgo. Nel dopoguerra, la loro traccia riaffiora grazie a un personaggio singolare: Herbert Herzog, austriaco, ex internato in un campo di concentramento come «sangue misto», che riesce a procurarsi documenti originali sulla sorte dell’oro italiano dirottato in Austria.
Nel 1950 si presenta alla legazione italiana a Berna, propone le sue carte in cambio di un compenso. La Banca d’Italia lo convoca a Roma, valuta l’attendibilità delle informazioni, arriva a firmare una lettera-contratto: se i documenti consentiranno di recuperare oro italiano, a Herzog spetterà il 10% del valore.
Alla fine, la pista porta al recupero di una quantità piccola ma reale: 0,58 tonnellate di oro, il cosiddetto «tesoro di Salisburgo». Non è il colpo grosso sperato, ma basta perché l’uomo dei documenti riceva la sua percentuale, liquidata solo nel 1958 dopo lunghe verifiche. Un frammento di storia che dice molto su quanto a lungo l’eco di quella razzia abbia continuato a risuonare nei corridoi delle banche centrali europee.
Oggi: un tesoro diffuso, un ruolo discreto
Oggi la storia dell’oro della Banca d’Italia non si consuma più tra deportazioni, convogli e cave sotterranee. Le 2.452 tonnellate di proprietà dell’Istituto sono custodite nei caveau di via Nazionale (quasi il 45% della riserva aurea), ma anche presso alcune fra le principali banche centrali mondiali: quasi il 5,8% nel Regno Unito, il 6% in Svizzera e oltre il 43% negli Stati Uniti. È una scelta che non ha nulla di esotico: segue le rotte storiche degli acquisti e risponde a una logica moderna di diversificazione e rapidità d’impiego. Tenere il metallo nelle principali piazze finanziarie significa poterlo mobilitare, se necessario, con meno rischi, meno costi, meno tempo.
Nei sotterranei della Banca d’Italia si trova anche una quota – 100 tonnellate – delle riserve conferite alla Banca centrale europea all’alba dell’euro, una frazione simbolica ma non irrilevante del patrimonio comune dell’Unione. Il resto del tesoro conduce una vita discreta, quasi silenziosa: inventari meticolosi, verifiche periodiche, ispezioni incrociate, aggiornamenti di bilancio che scorrono con la regolarità delle stagioni. È un patrimonio che non vuole essere visto, solo essere custodito. E che continua, nel ventre profondo del caveau, a compiere il suo mestiere più antico: offrire un punto fermo in un mondo che cambia, ricordando (anche alla politica) quanto la stabilità – economica e istituzionale – sia fatta soprattutto di ciò che non fa rumore.