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 2025  novembre 30 Domenica calendario

Intervista a Domenico Soranno

Domenico Soranno, 62 anni, di Sannicandro di Bari, è uno degli chef più apprezzati d’Italia. Anzi, il più ammirato per la cucina di pesce. La sua Langosteria a Milano – sue, i locali sotto la Madonnina sono quattro – è un ristorante di culto. Al suo interno i clienti vip, dai super professionisti ai personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo, si sprecano.
Soranno, a che età ha acceso per la prima volta i fornelli?
«Non avevo nemmeno 13 anni».
E cosa ha preparato?
«Nulla. Già accendere i fornelli mi fece toccare il cielo con un dito. Due anni dopo, però, ho cucinato per la prima volta. Fu un disastro: orecchiette con le polpettine. Le orecchiette rimbalzavano nel piatto. Erano durissime».

Chi le ha trasferito la passione per la cucina?
«Maria, la mia Mamma. Per cortesia, Mamma con la M maiuscola. Lei è la più brava in assoluto. La sento vicina ogni volta che cucino. Ancora oggi è la mia guida. Una cuoca strepitosa».
La Langosteria è un convivio tra i più gettonati e meglio frequentati d’Italia. Qual è il segreto del suo successo?
«Dico sempre ai miei figli, e ai più giovani che arrivano da noi, che non vince chi è bravo ma chi persevera. Più lungo sarà il percorso, più grande la soddisfazione. E poi la formula è semplice. La cucina è servizio: cucinare per i nostri ospiti un pochino meglio di quanto facciamo per noi».
Quanti ristoranti governa?
«Quattro a Milano, uno a Parigi al settimo piano dell’hotel Le Cheval Blanche, da dove ci si affaccia sulla Senna con una vista unica, un altro è in alta quota a Saint Moritz a bordo piste, l’ultimo è a Paraggi a due passi da Portofino, in una delle più belle insenature del mondo. Mangiare bene è importante, farlo in un posto bello rende tutto indimenticabile».
A proposito di posti, è vero che sta per aprirne di nuovi?
«Vero. Il nostro piano prevede l’apertura di cinque nuovi ristoranti entro il 2030».
Dove?
«A Londra, Porto Cervo, Madrid, Marrakech e Saint Barth».
Qual è il piatto di cui mena vanto?
«Le orecchiette con crema di fave e frutti di mare. Mi lega ai ricordi della mia infanzia e della mia Mamma».
Che rapporto ha conservato con la sua Puglia?
«Con la mia terra il rapporto non si è conservato, è cresciuto. Le cose si apprezzano quando vengono a mancare. La Puglia ha prodotti di eccellenza, che regolarmente servo a tavola. Ho viaggiato tanto, ma credo che la Puglia sia regione la più bella del mondo. E concedetemi una battuta: la mia Sannicandro di Bari ne è la capitale (ride di gusto, ndr)».
Quanto personale lavora nei suoi ristoranti?
«Quando ho iniziato nel 2009 eravamo in tredici. Con Enrico Buonocore, il fondatore, quattordici. Oggi siamo in cinquecento e il piano per il 2030 ci farà diventare un’allegra “brigata” di oltre mille unità».
Nonostante sia uno dei più importanti chef italiani, è poco mediatico. Per quale motivo?
«Per scelta. Apparire appanna il carisma. Preferisco avere un profilo basso, da sempre, pure oggi che le tv mi incalzano».
Qual è il collega che stima di più?
«In Italia abbiamo bravissimi chef. È lunga la classifica dei colleghi che rispetto».
E quale, a suo avviso, il collega sopravvalutato proprio perché mediatico?
«Ce ne sono tanti. Rubo una frase che recentemente mi ha detto un giornalista. È di un sociologo francese, Pierre Bourdieu: “Una volta per andare in televisione bisognava essere importanti, oggi basta andare in televisione per diventare importante”.
Qual è stato il complimento più bello che ha ricevuto nella sua carriera?
«Ne cito un paio. Il primo: qualche anno fa una signora voleva che cucinassi per lei, perché le ricordavo ciò che faceva la sua mamma. Il secondo: un cliente al quale avevo preparato un battuto di aragosta in robata con pappa di zucchine, trombette cipollotto e salsa limone, mi disse: “Spero che non si offenda. Aragosta buonissima, zucchina capolavoro del gusto, al punto che mi sembra un delitto mangiarla tutta”. Era serio».
E di fronte a quale critica, invece, è rimasto male?
«Preparai un bellissimo rombo chiodato, ne feci un trancio con cime di rapa ripassata al peperoncino e funghi cardoncelli trifolati. Quel signore mi disse che il rombo era allevato e non pescato. Non era così e rimasi amareggiato».
Come descriverebbe, in tre aggettivi, la sua cucina?
«Semplice, genuina, vera».
Il suo menu perfetto?
«Quattro portate. Una insalata tiepida di mare con calamari, scampi, gamberi rossi e polpo conditi con olio rigorosamente pugliese e limone. Poi le mie orecchiette con crema di fave e frutti mare. Il King Crab 2007, che è un nostro piatto iconico. E poi non perdetevi il gelato, di cui sono ghiottissimo».
Chi sono i vip che frequentano abitualmente i suoi ristoranti?
«Mi creda, passano tutti da noi».
Chi, fra questi, è più affezionato e le ha fatto il complimento più bello?
«Il regista Gabriele Salvatores, perché anche a lui la nostra cucina rievoca quella della sua Mamma. Anche lei con la M maiuscola, per favore».
Chi, invece, il personaggio più ostico o antipatico?
«Non ne abbiamo. Clienti esigenti, tanti. Ma alla Langosteria ci sforziamo di creare un clima di grande cordialità».
Qual è stata la richiesta più curiosa che le ha fatto un cliente?
«Una mamma richiama la mia presenza in sala e mi dice: “Mio figlio non mangia mai nulla”. Le chiedo se il ragazzino ha allergie, mi risponde di no. Torno in cucina e preparo gnocchi con datterino giallo e filetto di branzino. Il ragazzo divora il piatto, la mamma mi richiama in sala e grida al miracolo. Mi chiede la ricetta e le spiego come preparo il pomodoro. Non è finita qui. Sulla base di quell’esperienza ho aggiunto olive, capperi, limone e crumble al peperoncino. La signora non seppe come ringraziarmi, ma a ben guardare sono io a doverla ringraziare. Quell’esperienza ha dato vita a un piatto signature della Langosteria: paccheri, che hanno sostituito gli gnocchi, con branzino, datterino giallo, capperi, olive, limone di Amalfi e crumble al peperoncino».
La gioia professionale più grande?
«Non avevo ancora 20 anni e lavoravo a Bari in un nuovo locale. A due mesi dall’apertura lo chef litigò con il titolare e si licenziò. Mi venne chiesto di sostituirlo. Ricordo che avevamo uno di quei clienti fissi che non mancano mai in nessun ristorante. Ordinò orecchiette con cime di rapa, pomodorini e acciughe. Dopo i primi bocconi, il cliente chiamò il cameriere e chiese se fosse cambiato il cuoco? Panico. Il cameriere nascose l’accaduto dicendo che lo chef era ammalato e in cucina c’era un sostituto. Il cliente sorrise e si raccomandò di non far guarire presto il vecchio chef, perché non aveva mai mangiato un piatto di orecchiette e cime di rapa così buono».
Con il suo libro “Sapori di mare”, uscito in queste settimane, affonda la forchetta nella tradizione. Qual è la ricetta che sente più vicina al suo modo di essere?
«Ho un debole per le orecchiette, cucinate in qualsiasi modo».

Cosa mangia abitualmente? Si cucina lei?
«Confesso: sono ghiotto di riso, pizza, pasta, carne, dolci e, soprattutto, gelati. Certo che mi cucino, è un momento magico tra creatività e meditazione».

Vero che i suoi figli non faranno gli chef?
«Mia figlia Martina studia Medicina. Mattia invece ha fatto il cuoco per 18 mesi, poi ha lasciato: lavora in uno studio di infortunistica stradale. Riconosco: mi sarebbe piaciuto che un figlio avesse seguito le mie orme, ma ognuno deve coltivare la propria vocazione».
Quale obiettivo si è dato per chiudere magnificamente una già straordinaria esperienza?
«Dedicarmi ai più giovani con una academy del gusto. Mi piacerebbe partire dalla quinta elementare fino alle medie. Trasmettere l’abc della conoscenza del cibo per far comprendere cosa si dovrebbe cucinare e mangiare prima che arrivi l’età dell’adolescenza, in cui si abusa soprattutto perché non si conosce».