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 2025  novembre 30 Domenica calendario

Il vomito di Andreotti dopo il rapimento Moro e le sue parole a Cossiga: «Francesco, soffro molto. E soffro ancora di più perché non credono che io soffra»

È difficile parlare di un Andreotti segreto. In apparenza, di quel controverso personaggio della Dc, ministro e poi presidente del Consiglio per sei volte, delfino di Alcide De Gasperi, negli Anni Novanta del secolo scorso processato, assolto e prescritto per omicidio e mafia, si sa tutto. Anche se non è mai così. Per questo abbiamo pensato di proporre alcuni episodi apparentemente minori della sua vita, per illuminare o comunque sottolineare aspetti poco sconosciuti, del suo carattere, delle sue abitudini. E abbiamo deciso di cominciare con un episodio drammatico, avvenuto in un giorno ancora più drammatico: il 16 marzo del 1978, il giorno della strage di via Fani, a Roma, e del sequestro di Aldo Moro.
 
Nei suoi Diari del governo di unità nazionale, alla data del 16 marzo 1976 si legge: «A Montecitorio, due ore e mezza dopo l’ora fissata, leggo una sintesi del lungo discorso programmatico…». Per Giulio Andreotti, era una data storica non solo per l’inizio di un governo con il Pci nella maggioranza. Quel battesimo era intinto nel sangue dei cinque uomini della scorta di Aldo Moro, assassinati dalle Brigate Rosse a Roma; e dal sequestro del presidente della Dc. Ma perché quelle due ore e mezza di ritardo? Troppe o troppo poche? Le spiegazioni possono essere molte, e tutte legittime dopo un attacco al cuore dello Stato, come si disse allora, senza precedenti.
Ma la motivazione vera è rimasta sepolta per anni nella memoria dei pochissimi che ne furono testimoni. E cioè di un Andreotti che, al contrario dell’impassibilità da automa attribuitagli anche in quell’occasione, fu piegato, quasi spezzato emotivamente e fisicamente dalla notizia del rapimento di Moro.  L’«altro» Andreotti inebetito dall’orrore, dalla sorpresa, dalla paura, non è affiorato mai. Eppure esisteva. C’era l’uomo più potente d’Italia in quel 1978 che, seduto nel suo studio a Palazzo Chigi, viene informato della strage di via Fani. E il suo autocontrollo mitico, da animale a sangue freddo, lucido, cinico, viene stravolto.

L’episodio poco conosciuto, che ho raccontato nella biografia scritta su di lui e ripreso nel film di Marco Bellocchio Esterno Notte, è che Andreotti fu scosso da conati di vomito violenti. Vomitò, non pianse. E non solo perché le lacrime erano poco andreottiane. Di fronte all’enormità di quanto era accaduto il suo equilibrio proverbiale saltò. Si piegò in due, svenne. E fu costretto a stendersi su un divano nello studio presidenziale. Non bastavano né lacrime né grida. Era come se il suo fisico si rifiutasse di ubbidire a quel cervello da computer che anche quel mattino del 16 marzo forse provava a suggerirgli calma e sangue freddo. Ma Andreotti, in quell’occasione, non riuscì a ubbidire.
E mentre arrivavano il sindacalista Luciano Lama, il segretario comunista Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Benigno Zaccagnini, Ugo La Malfa, i vertici della sua maggioranza, una persona prese l’auto e andò a casa Andreotti, l’appartamento in corso Vittorio Emanuele, proprio davanti al ponte che porta in Vaticano. E si fece dare dalla signora Livia, la moglie, un abito da cerimonia pulito, un’altra camicia e un’altra cravatta, perché quelli indossati la mattina si erano sporcati.
Filtrate attraverso le lenti di questo episodio poco conosciuto, quelle due ore e mezza di ritardo appaiono appena un lampo. Perché bisognava rispondere quanto prima ai terroristi, facendo prevalere la ragione di Stato. E se anche qualcuno già presentiva che quel governo era morto insieme con le guardie del corpo di Moro, Andreotti doveva presentarsi in Parlamento e parlare: anche se magari avrebbe preferito sdraiarsi al buio a casa, come faceva sempre quando veniva colpito dai suoi lancinanti mal di testa.
 
Il medico diagnosticò che aveva avuto un collasso da choc nervoso. Ma agli occhi dell’opinione pubblica la sua voce metallica, monotona, che leggeva il discorso di investitura del primo governo di unità nazionale, testimoniava solo il gelo del personaggio, la sua impermeabilità alle emozioni. Pochi sapevano, e pochi dovevano sapere che era crollato, come un qualsiasi essere umano. E pochissimi sapevano che in quei giorni aveva radunato la famiglia, Livia e i quattro figli, per dire loro che la famiglia in caso di sequestro suo non avrebbe dovuto scendere a patti con i terroristi.
In seguito si sarebbe saputo che i brigatisti avevano pensato di rapire lui, al posto di Moro. E il pericolo non era scomparso. Gliel’aveva detto Francesco Cossiga, allora suo ministro dell’Interno. E lui gli aveva confidato: «Sai, Francesco, soffro molto. E soffro ancora di più perché non credono che io soffra». Erano le istantanee di una tragedia collettiva, destinata a condizionare la storia italiana nei decenni a venire. E il frammento rivelatore di una personalità complessa come quella di Andreotti. Quel rapimento segnò anche la sua vita. Lo indusse a fare un singolare fioretto, che può apparire raggelante ma spiega un altro tratto della sua personalità. Ne parleremo la prossima volta.