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 2025  novembre 30 Domenica calendario

Trump in declino fa il duro in casa

A meno di un anno dalle elezioni americane di metà mandato, si torna sul piano interno, all’agenda massimalista più dura di Donald Trump. Il Presidente ha capito che le sue recenti divagazioni di politica estera, alcune di successo, altre meno, come per la guerra in Ucraina, servivano a poco sul piano dei consensi. Ha così approfittato dell’attacco a due guardie nazionali a Washington (la ragazza, una ventenne è poi morta) per mano di un rifugiato politico afghano per annunciare nuove misure durissime sul piano interno: altre 500 truppe della Guardia Nazionale nella Capitale, congelamento permanente dell’immigrazione «dal Terzo Mondo» e dall’Afghanistan, possibile annullamento della cittadinanza di «immigrati naturalizzati che disturbano la tranquillità interna», chiusura di sussidi o benefici federali a non cittadini e deportazione di stranieri «non compatibili con la civiltà occidentale». Giovedì aveva già avviato una revisione del permesso di residenza permanente per gli immigrati di 19 nazioni. Trump vuole rivitalizzare un «Maga» per la prima volta a lui parzialmente ostile, mobilitare una base cristiana incerta, uno sforzo evidente dopo l’uccisione di Charlie Kirk, agli inizi di settembre. L’obiettivo? Mantenere il controllo di tutti e due i rami del Parlamento alle elezioni di metà mandato il 3 novembre 2026. Ce la fara? A giudicare dall’umore del paese oggi, la risposta è no. Certo molto dipenderà dal partito democratico: prevarranno candidati centristi simili a Abigail Spanberger o Mikei Sherril che hanno vinto le elezioni per governatore in Virginia e New Jersey, o «socialisti» tipo Mamdami a New York? Per capire meglio occorre fare un passo indietro e tornare alle divagazioni di politica estera di cui parlavo poco sopra.
Che un’azione militare mirata all’estero possa distrarre da guai di politica interna lo abbiamo visto in Wag the Dog, film geniale/satirico del 1998 con Robert de Niro e Dustin Hoffman, in pieno scandalo Bill Clinton/Lewinski: un presidente vicino alle elezioni si trova in difficoltà per presunte avances a una minorenne e uno «spin doctor» si inventa una guerra in Albania per distrarre i media. Poi succede di tutto, ma il Presidente viene rieletto. Il parallelo con Donald Trump è fin troppo facile. Questo presidente si è da sempre applicato per distrarre l’opinione pubblica: «Seguiamo una notizia e ci ha già superato con altre due notizie: è un ciclo ossessivo, estenuante» mi diceva già mesi fa il direttore di un importante quotidiano americano. La cosa funziona nei primi otto mesi della presidenza, poi non funziona più: da un indice di gradimento del 52% lo scorso febbraio al debutto della presidenza Trump, l’indice ha cominciato a scendere gradualmente fino a un 42-40% medio. Anche per questo Trump parte con azioni incisive di politica estera. Il 29 settembre annuncia un piano per il cessate il fuoco tra Israele e Gaza, il 17 ottobre il piano viene ratificato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Trump gode dell’ammirazione internazionale, non è più l’improvvisatore che solo distrugge l’architettura multilaterale perfezionata in ottant’anni da ogni amministrazione americana, ma un pragmatico che forse interviene con un approccio più muscolare, inusuale, personale. Sempre a fine settembre promette 20 miliardi di dollari a Javier Milei, il Presidente argentino, se il suo partito vincerà le elezioni di metà mandato. Contro le previsioni Milei vince e Trump vince anche lui. Il 2 settembre attacca i primi battelli di trafficanti di droga venezuelani. I garanti del diritto protestano. E lui manda la portaerei Ford nei Caraibi a metà novembre. Parlerà con Maduro? Forse. Intanto due giorni fa, il 28 novembre, annuncia che vi saranno attacchi di terra. Il suo piano è chiaro, destabilizzare il regime a Caracas e installare la legittima vincitrice delle elezioni, Maria Corina Machado, appena insignita del premio Nobel per la pace. In Sud America Trump – con il segretario di Stato Marco Rubio – vuole contenere l’espansionismo aggressivo, anche economico, cinese e russo. Il Venezuela ha riserve petrolifere più importanti di quelle dell’Arabia Saudita. L’immagine internazionale di Trump – con l’eccezione per ora dell’Ucraina scacchiere dove si conferma succube di Putin – cambia. Walter Russel Mead, uno dei più autorevoli osservatori di politica estera americana scrive: «Chi pensa che Trump sia restrittivo o isolazionista, dovrebbe ascoltarlo. Questo presidente non si sta ritirando dal mondo. Vuole ridisegnarlo».
Il problema è che la politica estera serve a poco. Mentre cerca di raddrizzare i sondaggi con oggettivi successi esteri, all’interno Trump accumula sconfitte e cocenti delusioni. I suoi candidati in Virginia e New Jersey perdono malamente; provoca la chiusura più lunga della storia del governo americano, un boomerang sul piano dell’opinione pubblica; un giudice revoca l’incriminazione di due suoi nemici politici: l’ex capo dell’Fbi James Comey e la procuratrice di New York Laetitia James. Infine l’umiliazione più grave: il Parlamento approva per 400 a 1 alla Camera e all’unanimità al Senato la divulgazione dei documenti con possibili rivelazioni sessuali imbarazzanti sullo scandalo Jeffrey Epstein, custoditi al dipartimento per la Giustizia. Infine manca la sua promessa più solenne, rilanciare l’economia e migliorare salari e tenore di vita per i lavoratori americani. Aggiungiamo varie ed eventuali, tipo cancellazione di vaccini da parte di Robert Kennedy Jr. ed ecco che Donald Trump perde per la prima volta in modo evidente e continuativo la sua patina di invincibilità e si trova nel momento peggiore della sua storia politica: l’ultimo sondaggio di Gallup di venerdì, mostra un gradimento del 36%, il più basso per ogni Presidente da Reagan in avanti per lo stesso periodo. Ecco perché il ritorno a un inflessibile massimalismo interno. Ma forse gli americani cominciano ad averne abbastanza anche di quello.