Corriere della Sera, 30 novembre 2025
Intervista a Cesare Cremonini
Cesare Cremonini, perché Lucio Dalla chiamava sua madre?
«Le chiedeva: signora, come mai non posso essere amico di suo figlio?».
Finché...
«Gli telefonai io, qualche anno prima che morisse: voglio prendere un caffè da te. E lui: vieni, sono con De Gregori. Andai a casa sua, ricordo che sull’ascensore intravedevo la collezione d’arte di Lucio, più salivo e più aumentava, fra coccodrilli e maschere africane. Arrivai all’ultimo piano, dove c’era un terrazzino, parlammo tutti e tre di “Com’è profondo il mare”. Poi, in salotto, mi fece suonare il suo pianoforte, uno Steinway antichissimo. Sul pianoforte c’era un foglio con su scritto a mano: “Vorrei essere una rondine...”. Un appunto rimasto lì dove era stato pensato».
Lei cosa vorrebbe fare?
«La libertà è la mia strategia».
Perché?
«La mia è una storia articolata e complessa, con un sottotesto di manipolazione, di costrizione a una realtà che non esisteva».
Costruita da chi?
«Dal mio ex manager Walter Mameli. È stato il mio scopritore, ma mi ha anche imprigionato: vivevo in un castello dorato, però mi era negata la possibilità di avere a che fare con qualunque essere umano che facesse parte del mio ambiente. Compreso Lucio».
Fino a cinque anni fa.
«Quando me ne sono liberato. È stata una rottura difficile. Sto riprendendo possesso di me, con calma ma con grandi risultati. Questa nuova apertura verso il mondo mi fa sentire un esordiente. Le collaborazioni con Luca Carboni, Elisa, Lorenzo Jovanotti derivano da un enorme fallo di reazione a una costrizione gigantesca».
Da questa apertura è arrivata La Santa Pennicanza.
«Avevo chiamato Fiorello per fargli gli auguri per il nuovo programma. Lui ha buttato lì: fammi una sigla. Gli ho risposto di sì, ma non ho dato troppo peso alle sue parole perché sapevo che lo aveva chiesto a tanti altri. Però la Pennicanza mi era entrata nella testa: una parola inventata, intelligente, con un bel suono. E quando c’è qualcosa che mi colpisce io non devo fare niente, perché scrivere canzoni non è un lavoro, non ci sono libri o università che ti spiegano come farlo. Così una domenica mattina mi sono svegliato alle 7 con la prima strofa in testa: “La Pennicanza è una sostanza che si consuma dopo i pasti in abbondanza…”. E mi sono ritrovato al pianoforte, l’ho scritta e registrata con una band. Ho chiamato Fiore: non ho una sigla, ho una canzone».
Renzo Arbore ha detto che avrebbe potuto cantarla lui.
«Renzo Arbore è il mio modello. Lui, come la Rai degli anni 60 e 70, ha connesso la cultura popolare con l’intrattenimento. Il nazionalpopolare alto non esiste più. Oggi si punta al basso, all’omologazione».
È un nostalgico?
«No, perché sono il frutto di un grande revival, quello degli anni 90 che hanno riportato tutti indietro nel tempo. Siamo ripartiti dai Beatles, da Aretha Franklin, Nina Simone, dalla psichedelia, sono tornate le canne, anzi i bong... tutto quello che era stato ingenuamente vissuto nei 60 e 70 da una generazione è ritornato in maniera rimescolata».
All’inizio degli anni 90 sembrava che fosse finita la storia, con la vittoria della libertà.
«C’è stato un momento in cui ho avvertito che la globalizzazione avrebbe salvato il mondo. Mtv apriva la musica verso nuovi orizzonti, il Medio Oriente era davanti a Clinton per stringergli la mano, papa Giovanni Paolo II abbatteva i muri, liberandoci dalla schiavitù della guerra fredda. Ci sono stati anche drammi che hanno segnato prepotentemente la mia generazione: la guerra in Jugoslavia, le morti di Falcone e Borsellino. Tutto si è infranto con il G8 di Genova e l’11 settembre. I politici non capiscono: passa il tempo, i nomi restano. Sono sempre gli stessi, anche se cambiano corpo».
Per esempio?
«Fascismo, mafia, autoritarismo esistono ancora, sotto altre forme. È pericolosissimo dire che oggi l’autoritarismo non c’è perché siamo in democrazia. O che il fascismo non esiste perché non c’è più Mussolini».
Il fascismo esiste ancora?
«Mio padre si definiva anti comunista e anti juventino. Quando il partito comunista di Fausto Bertinotti venne fatto fuori dal parlamento, con il berlusconismo, mi disse: “È un peccato.” Oggi chi lo direbbe?
Ma c’è una forma di autoritarismo in Italia?
«La vedo ovunque. Per me c’è autoritarismo anche nel mio piccolo mondo della musica, un business cieco che porta corporate tipo Spotify a essere un modello unico di fruizione della musica. Il digitale al 100% a chi giova? Lo stesso vale per l’Intelligenza artificiale. La verità è che la produzione e il profitto devono aumentare. Sempre. L’individualismo di pochissimi pesa sulla pelle di miliardi di persone».
Meloni o Schlein?
«Nessuna delle due, le leggi del tifo le applico volentieri soltanto al Bologna. La mia prospettiva è quella di un artista che dal palco guarda la gente. E quello che vedo è che per un ragazzo o una ragazza di oggi tre anni di governo sono una vita che vola via».
Ma lei da che parte sta?
«Il mio cuore è tinto di rosso come i tetti di Bologna. Ma la politica di questi anni ha la bussola impazzita e ci rende spesso daltonici. Quando guardo figure come il cardinale Zuppi, che è un amico, come per miracolo mi torna la vista».
Cosa le disse Dalla di Com’è profondo il mare?
«Per me è un mistero quasi divino. Lucio si era rifugiato durante un’estate sulle isole Tremiti, da solo, abbandonando i live e ogni impegno, ritornò tutto sgarrupato, a Bologna diciamo tot strazè, stracciato, sporco, come un pescatore gesuita. Aveva una borsa con dentro un disco, il primo in cui la musica italiana faceva un passo per portare il cantautorato verso il grande pubblico».
Lei non arriva dal mondo di Dalla.
«Per più di trent’anni è stato il grande imperatore, il deus ex machina della musica bolognese, recuperò anche Morandi quando sembrava finito».
Luca Carboni fu il primo.
«Mi dice sempre: sono stato fortunato perché sono uscito fuori grazie a Lucio. Poi lui si convinse di essere un manager. Cambiò look, mise giacca e cravatta. E fece nascere gli altri, dagli Stadio a Samuele Bersani».
Le ha raccontato qualcosa di quel periodo?
«Luca a 19 anni non voleva cantare, scriveva i testi ma non faceva girare le cassette con la sua voce. Un giorno passò davanti alla trattoria da Vito, vide che c’erano gli Stadio con Dalla che mangiavano in cucina. Andò dall’oste e gli chiese di consegnare i suoi testi a Lucio. Si accorse che lui li leggeva e li passava agli altri. Quando vide che Lucio stava per chiamare il numero che aveva scritto sui fogli, corse a casa per rispondere al telefono».
Lei ha fatto anche cinema.
«Pupi Avati mi invitò nel suo studio. Chiamai Lorenzo Jovanotti: “Sono spaventato, che faccio?”. Lui: “Sei protetto con Pupi, vai”».
E lei?
«Andai da Pupi a Roma. Entrai e lanciò una penna in faccia al mio ex manager».
Perché?
«Aveva paura di quanto gli sarei costato. La soddisfazione più grande fu quando pronunciai la mia prima battuta e Pupi si mise a ridere, una risata contagiosa che passò a suo fratello e poi a tutta la troupe. Pupi venera i suoi attori, li tratta come figli. Mi chiamava di notte per rassicurarmi e alla fine della telefonata io non avevo parlato con una persona, avevo letto un libro, perché Pupi parla come scrive. È una dote».
La sua qual è?
«La scrittura. Mi ha accompagnato come un passepartout per aprire le porte della vita. Fin da bambino, scrivevo ponendomi nella testa del lettore, pensando a un pubblico. La mia sensibilità è sempre alla ricerca di un incontro. Non ho mai avuto un diario segreto, anzi, quando i professori a scuola dicevano: comprate un diario, vi farà bene, io pensavo: ma chi lo leggerà?».
Quali porte le ha aperto la scrittura?
«Una volta ho mandato una mail a Vasco per coinvolgerlo nel numero di un magazine. L’argomento era: vivere. Solitamente lui risponde in maniera pacata e concisa, ma riuscii ad aprire un varco nel suo cuore, un cuore difficile da raggiungere. Incredibilmente fece un articolo in cui parlò della sua depressione, della sua vita. Si espose. Si diede».
Lei ha definito Vasco patrimonio dell’umanità.
«L’ho incontrato sotto i portici di Bologna. Prima di salutarlo l’ho voluto abbracciare più volte, non lo lasciavo andare. Un abbraccio era per dirgli grazie per la sua musica, un altro per aver sopportato il peso di essere Vasco Rossi fino ad ora. Un altro ancora per i suoi occhi inquieti che parlano e ammoniscono tutti. Sembrano gridare: dobbiamo perdonarci».
Quando vi siete incontrati per la prima volta?
«Nel backstage di un suo concerto. Avevo 24 anni: “Mi hai commosso” gli dissi. Lui mi guardò attraverso il filtro degli occhiali blu: “È la forza della musica”».
Anche con Elisa vi siete conosciuti durante un live.
«Nel 2000, a Udine, dietro le quinte di un concerto dei Lùnapop. Era come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Io suonavo in uno stadio, all’apice del successo, lei era una ragazza timida e delicata, veniva dalla scuola Caselli, una scopritrice di talenti a cui la musica italiana deve tanto. Io ero un indipendente, una specie di prodotto punk, nessuna major voleva produrci».
Cos’è che vi unisce adesso?
«Sappiamo maneggiare la musica. Possiamo essere burattini, ma anche burattinai di noi stessi, quindi autonomi e liberi».
Ha salvato la vita a suo padre.
«Ero con lui a cena in un ristorante, la Cesarina, dove andava sempre Lucio. Da quando si era separato da mamma che l’aveva mandato via di casa, a volte dopo il lavoro mi chiedeva di cenare con lui».
Di cosa si era stancata sua madre?
«Di un marito che le diceva che persino il cinema era di troppo per lei perché aveva dei figli da seguire. Avevo 12 anni o poco più quando una notte, vedendola piangere, andai in camera e le dissi: mamma, non è difficile, bisogna che lo lasci. Lei mi prese sul serio, il giorno dopo mio padre era in campagna insieme al cane. Mio fratello e io restammo con lei a Bologna».
Di solito i bambini tentano di tenere i genitori insieme. Lei invece ha convinto sua madre a mandare via suo padre. Forse l’ha salvata.
«Credo si sia salvata da sola. In casa eravamo tre maschi, famiglia del ceto medio bolognese, padre medico con tre specializzazioni che aveva sposato una sua paziente di 22 anni quando lui ne aveva già 52. Mia madre aveva bisogno di un alleato. Io sicuramente lo sono stato e lo sono ancora oggi, per sensibilità e passione verso l’arte, la comunicazione, la libertà».
Sua mamma è una figura centrale per lei.
«L’ho vista soffrire tanto non solo per mio padre. In casa ha aleggiato una forma depressiva, una palla infuocata che ci siamo passati a vicenda. Ho visto una persona molto imprigionata e molto sacrificata. Lei mi ricorda il diritto alla libertà, alla creatività, all’espressione di sé».
Come va con il mostriciattolo verde, la lieve forma di schizofrenia?
«È un percorso che continua. Sono due anni che prendo medicinali con costanza e questo mi permette di accettarmi come una persona che deve essere curata, mi dà anche una forma di pacatezza. Sono felice la mattina quando vado in cucina, mi preparo il caffè e vedo quelle pillole, rappresentano l’accettazione di me stesso».
Diceva di quella sera con suo padre da Cesarina.
«Ero già adulto, seduto a un tavolo con lui, davanti a un tortellino. Mi accorsi che non riusciva a parlare. Gli versai dell’acqua ma ero talmente terrorizzato che uscì dal bicchiere perché continuavo a guardarlo e a chiamarlo, dopo poco riuscì a dire qualche parola e lo portai a casa. Decisi di dormire con lui, spensi la luce: “Buonanotte”. Non rispose, era in coma. Lo portai al pronto soccorso del Bellaria, venne operato d’urgenza».
Cosa era successo?
«Aveva avuto un ictus micotico doppio, lo salvarono per un soffio. Dopo un mese lavorava di nuovo. Quel mese fu l’unico in cui mia madre non ebbe una sgridata».
La musica quando comincia per lei?
«Mia madre voleva che diventassi un concertista, i professori dicevano che ero portato, avevo orecchio. Provarono a iscrivermi al Conservatorio, feci l’esame, mi ammisero, ma io ero innamorato».
Di chi?
«Della bambina al primo banco, Margherita. Le dedicai diverse canzoni».
Non era corrisposto?
«No, non ero il bello della classe, e questo ha contribuito enormemente alla mia carriera iniziale. Perché non è mai il bello della classe che scrive le canzoni».
L’amore con Giorgia Cardinaletti?
«È centrale, è appena uscita “Ragazze facili”, una canzone scritta grazie a lei, perché mi ha chiesto una cosa che può cambiare la vita di un uomo».
Cosa?
«Il coraggio di amare. Ho sentito fortemente questa richiesta, ma non ero in grado di farlo perché ero circondato da alibi, fantasmi che io chiamo metaforicamente Ragazze facili: non sono solamente figure che ti circondano, ma è il mondo che ti costruisci per non affrontare te stesso. Questa canzone ha rotto una diga, un argine che mi teneva fermo da anni. Sembra banale, ma si muore o ci si ammala per l’incapacità di amare».
Ma la vostra storia continua o è finita?
«Non c’è più».
È single?
«Sono innamorato, non vado oltre».
Ha postato una foto con Ornella Vanoni.
«Eravamo al Festival di Venezia, presentava il suo documentario. Era curiosa di conoscermi, io anche. Ci siamo seduti a un tavolo. Ornella ordina un gin tonic, io un bicchiere di vino. Ho commesso l’errore, di cui mi pento, di trattarla con il rispetto che si deve ai giganti della musica e anche alle persone di una certa età. Lei a un certo punto si è stufata e mi ha sussurrato: ma tu come fai l’amore?».
Cosa ha risposto?
«Amo il normale».
Ha mai provato attrazione per un uomo?
«Certo. Su un braccio ho tatuato Freddie Mercury! A me sono arrivati come un bagaglio culturale i fumetti di Andrea Pazienza, la cultura underground di Bologna, le serate all’Arcigay, la vicinanza con il mondo della musica elettronica di Riccione, il Cocoricò, il travestitismo. Un mondo che non aveva generi da dover specificare».
Ha avuto esperienze omosessuali?
«No, però ho legato la mia vita a una visione in cui fosse naturale l’inclusività e il piacere come senso del vivere. Tanti pensano che il sesso sia un esperimento. Io sono convinto del contrario. L’amore è sperimentale, il sesso è metodico. Io sono sperimentale».
Cosa si fa dopo aver riempito gli stadi?
«Io ho comprato un sassofono, sto imparando a suonarlo, è una mano tesa verso le persone, rappresenta il piccolo, il suono e il calore dell’essere umano. Oggi c’è la convinzione che suonare in uno stadio dia uno status di credibilità. Per me è la cosa più antica che si possa dire, oltre a togliere l’identità al pubblico che diventa boato, massa, business».
Quindi con gli stadi ha chiuso?
«Ancora per quest’anno andrò avanti. Ho un obiettivo: portare la musica pop rock italiana negli spazi che hanno ospitato i grandi della storia del rock. Poi ritornerò con piacere nei più intimi Palasport».
Adesso qual è il sogno che insegue?
«Il mio sogno è e sarà sempre lo stesso: di tenere insieme, raccontare una storia che unisce diversi artisti ed epoche per parlare a un pubblico che vorrei unito sotto uno stesso cielo. Nel prossimo album, forse non da solo, magari con uno come Lucio Corsi, proverò a recuperare la musica popolare del Derby di Milano. Gaber, Jannacci, Fo, Cochi e Renato hanno ritratto l’Italia attraverso l’ironia, una delle mosse di karate per sconfiggere la disperazione».