Corriere della Sera, 30 novembre 2025
Atreju, Pasolini, Tex Willer, Gattuso. L’ingorgo nel Pantheon alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia
Voci. «Archite’... Come lo montamo er pannello de sto Perlasca?». E Guglielmo Marconi? Pasolini va sistemato laggiù. «Ragazzi, occhio... Che Pier Paolo si scrive staccato». Il Pantheon dei Fratelli d’Italia. Come sempre piuttosto affollato (e variopinto: poi vi racconto di quella volta che misero insieme Carlo Magno e Francesco Guccini, Santa Caterina e Gattuso, inteso come Rino, il ct azzurro).
Carpentieri e falegnami presto al lavoro nel gelo dei giardini di Castel Sant’Angelo, i primi tir manovrano per scaricare tensostrutture da film di fantascienza, architetti solerti s’aggirano con le piantine della cittadella di Atreju, l’annuale festa, anzi l’ormai faraonico festone di Fratelli d’Italia, plastica prova di forza e di potere che comincia qui sabato prossimo, annunciata dalla baruffa sugli inviti, Campo largo in purezza, con il vengo o non vengo di Elly Schlein: vengo se sono sola sul palco con la Meloni, al limite mi porto Bonelli&Fratoianni, ma Conte no, con Conte non vengo, perché – sott’inteso – la candidata premier del centrosinistra, non so se s’è capito, sarei io.
Va bene: poi vedremo chi davvero verrà. E cercheremo di scoprire anche perché i Fratelli hanno questa ossessione della pista sul ghiaccio (sembra vogliano allestirne una ancora più grande, proprio la più grande di sempre, olimpionica, altro che quella dell’anno scorso al Circo Massimo, altro che Milano-Cortina, anche se poi, com’è noto, i romani non sanno neppure allacciarseli, i pattini). E comunque non è di questo che parliamo, oggi.
Proviamo invece ad aggirarci tra personaggi scelti chissà con quali misteriosi criteri, tra slogan e appesantimenti filologici, e libri, e canzoni, insomma ci si avventura dentro il Pantheon culturale che la destra patriota ha faticosamente cercato di costruirsi, una festa dopo l’altra, negli ultimi ventisette anni (Giorgia Meloni organizzò la prima edizione di Atreju nel 1998): un po’ con affascinanti slanci psichedelici, talvolta con il sospetto della casualità, sempre comunque sulla spinta di un’autentico bisogno (come ha recentemente ammesso Ignazio La Russa, «... Proprio perché non avevamo molti artisti o scrittori che si dichiaravano di destra, cercavamo cultura ovunque, ci mescolavamo, ci interessava tutto»).
L’urgenza è antica: andare oltre D’Annunzio, Marinetti, Pound, Evola, Celine. Così, intanto, ecco la scelta del nome: Atreju, che è il protagonista de La storia infinita, il fantasy di riferimento dell’universo meloniano, all’inizio forse prescelto per essere in concorrenza con Il Signore degli Anelli, celebre rifugio metaforico dei fratelli maggiori, quelli che avevano attraversato gli anni di piombo. E poi ecco pure Jonathan Livingston, che è un gabbiano, personaggio principale d’un romanzo di Richard Bach e dei primi manifesti elettorali di una giovanissima Giorgia. Però è poco. Lo sa anche lei. Perciò, già nell’edizione del 2008, nel primo decennale, s’intuisce quanto la ricerca di miti con cui fabbricare una nuova egemonia culturale da opporre a quella della sinistra, sia diventata forte, accelerata, e inevitabilmente confusa.
All’epoca, per arrivare al piccolo palco di Atreju, tirato su grazie alle collette dei militanti, bisognava risalire il bosco del Celio, tra il Colosseo e la leggendaria sezione del Msi ricavata da un’umida catacomba di Colle Oppio, dove era cominciata l’avvenuta politica delle sorelle Meloni, in un miscuglio di cameratismo situazionista e visionarie sfumature tolkeniane. Niente auto blu, nessun lampeggiante: Giorgia ancora con la frangetta e gli scarponcini Dr. Martens. Ospite Silvio Berlusconi (premier). E, insieme a lui, una sparata di nuove facce da arruolare: Cyrano de Bergerac e Patty Pravo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Più Gattuso, «Cuore di gladiatore». Sul bancone dei libri: Tex, Alan Ford, Corto Maltese.
Due anni dopo, la colonna sonora di Atreju è affidata a Francesco De Gregori, con Viva l’Italia, e a Francesco Guccini, con Dio è morto.
Sembra la Festa dell’Unità. E invece no: è solo scattata una clamorosa strategia di appropriazione. Che deflagra nel 2014. Quando le sorelle Meloni decidono il colpaccio: e si prendono, per la prima volta, addirittura Pasolini (quell’anno insieme a Enrico Toti, Enrico Mattei, Salvo D’Acquisto e Adriano Olivetti). Pasolini, no? Il barone nero Tomaso Staiti di Cuddia, missino di tre cotte, gli aveva tirato addosso una cesta di finocchi. I giornali d’area fascista lo chiamavano, con disprezzo, «pederasta». Il Borghese, sgomento, scriveva che era un uomo dotato d’una «sessualità capovolta». E, appena poche settimane prima d’essere assassinato a Ostia, il poeta era stato pure aggredito da una squadraccia di fasci in piazza di Spagna. «Però c’è stato anche un Pasolini che parlava della destra divina che è dentro di noi, no?»: è questo il grimaldello (la scusa) intellettuale. Così, il volto scavato, in bianco e nero, di PPP, arriva ad Atreju (e, come detto, ci torna persino quest’anno).
È un crescendo. O meglio: un frullatore. Ogni volta che s’arriva alla festa, ci sono nomi inediti, spiazzanti. Nell’edizione del 2017, i ragazzi meloniani sfoggiano magliette con frasi di Leopardi e Albert Camus. Nel 2018 – la festa cresce e s’è intanto spostata all’Isola Tiberina – spazi dedicati a Leonida, Carlo Magno, Eleonora d’Arborea: «Icone – spiegano – di quell’Europa immortale di cui vogliamo essere eredi». L’anno seguente, l’ospite d’onore è Steve Bannon. E, con lui, Enea, Goethe e Dante (che, come confermerà poi Gennaro Sangiuliano, era un mezzo camerata: vabbè, ma chi ve l’ha detto?).
Le ultime feste sono state un trionfo di italianità. Tra enormi porchette portate a spalla da giovani militanti e scodelle di fumanti paste e fagioli, nel 2023, i ministri in abito scuro, e i sottosegretari, e i portaborse, attraversano vialetti dedicati a Giovannino Guareschi, Anita Garibaldi e Giuseppe Prezzolini. Ci sono foto di Oriana Fallaci e Maria Montessori. È un trend, un filone che i patrioti non mollano nemmeno l’anno scorso, al Circo Massimo. All’ingresso c’è proprio la «via italiana»: si sfila sotto le gigantografie di Colombo (Cristoforo, non Furio), Guglielmo Marconi, don Bosco, Santa Caterina. Dietro i tendoni di cellophane s’intravedevano i cartonati di Eleonora Duse, Maria Callas e Marco Polo.
Pure Marco Polo?
A Venezia, del resto, lo sanno tutti che Marco Polo era di destra (forse).