Tuttolibri, 28 novembre 2025
E Fontana si arrabbiava: "I critici dicevano ceramica. Io vedevo solo scultura"
Nel 1939 Lucio Fontana, reduce da tre mesi trascorsi a Parigi nei laboratori manufatturieri di Sèvres, dove realizzò oltre trecento pezzi in terracotta, grès e ceramica, disse polemicamente: «I critici dicevano ceramica. Io dicevo scultura». Si deve considerare che questo conflitto non animava soltanto Fontana, ma anche Melotti, restio a fare ceramica perché la considerava troppo decorativa per essere scultura, ovvero il sardo Salvatore Fancello, che alla Triennale del 1936 si affermò giovanissimo come scultore nella ceramica e nel disegno.
Luca Massimo Barbero tre anni fa ha licenziato i due tomi del “catalogo ragionato” di Fontana dedicati appunto alle “sculture ceramiche”, volumi conclusivi dell’opera promossa dalla Fondazione omonima, che promuove anche la pubblicazione di studi come i due volumi in uscita a giorni da Electa nella collana “Pesci rossi” dedicati a Lucio Fontana in Argentina “dagli esordi al Manifesto Blanco” di Daniela A. Sbaraglia; e quello di Gaspare L. Marcone su Fontana Mecenate Collezionista Militante (sostenne Baj e Burri, e fu influente su esperienze come il Gruppo T e il tedesco Gruppo Zero).
A parte la mole complessiva di circa duemila pezzi, ciò che colpiva nel Catalogo ragionato delle sculture ceramiche era appunto il numero di quelle a tema sacro: crocifissi e varie figure di Cristo, circa duecento; le Madonne una quarantina; tre Viae Crucis: quella del 1947, in terracotta smaltata, dipinta e lustrata, esposta nel 1988 a Parma; quella del 1955, in terracotta ingobbiata e dipinta in bianco e nero, esposta nel 1986 al Centro San Fedele di Milano, con i bozzetti per la Porta del Duomo; infine, quella “bianca” del 1957, in terracotta smaltata e dipinta in bianco, nero e rosa, esposta nel Palazzo della Regione Lombardia nel 2011. Negando l’adesione fideistica di Fontana, Guido Ballo nel 1986 sul Corriere della Sera precisò con imbarazzo che Lucio Fontana era laico, ma «spinto da profonda religiosità: per il continuo rapporto con l’infinito e il divenire della vita...». Nulla da eccepire. In fondo, oggi queste sottigliezze ideologiche non servono, se anche Luca Massimo Barbero a proposito dei soggetti sacri ha parlato di «esiti spaziali altrettanto dirompenti». Queste opere nel loro slancio espressivo partecipano al contesto che comprende camini, teste-ritratti (più di 50), animali di un bestiario che trova a mio parere un rapporto ancora da chiarire con quello di Fancello, maschere, piatti, vasi, battaglie, mitologie, a cui lungo gli anni 30 e 40 iniziarono ad apparire le Nature e tutto ciò che in qualche modo si connette ai concetti spaziali.
Di questo universo che ancora molti anni fa ad alcuni critici sembrava “di serie B” rispetto ai buchi e ai tagli, si occupa adesso la Collezione Guggenheim con la mostra Mani-Fattura. Le ceramiche di Lucio Fontana, a cura di Sharon Hecker, studiosa di Medardo Rosso e dell’Arte Povera, ma non una specialista di Fontana e della sua scultura ceramica. Scelta curiosa, quella dei responsabili della Collezione Guggenheim, se si pensa che Luca Massimo Barbero, oltre a essere nella commissione di esperti della Fondazione, è stato anche curatore di alcune mostre nello spazio veneziano; ma questa volta no. Come mai? C’è stato forse qualche dissenso sulle scelte di questa antologica?
Comunque sia, la mostra della Guggenheim con le sue 70 opere è utile a favorire un allargamento della conoscenza sulla scultura ceramica di Fontana; viceversa, è meno suggestiva sul piano dell’emozione: la dimensione “barocca” di Fontana non dico che richieda per forza uno spazio con affinità elettive, come quando nel 2019 alla Galleria Borghese Anna Coliva allestì la retrospettiva Terra e oro esponendo una trentina di crocifissi e Cristi – ma la scelta fu certo più “giusta” rispetto a quanto non sembri l’algida parete alla Guggenheim con 11 opere dello stesso soggetto e 2 deposizioni.
La prima sala a Venezia mostra qualche esempio dal bestiario, fra cui il Coccodrillo, il Granchio e la Farfalla, tutti del 1936-1937 (e a proposito del Coccodrillo, sarebbe interessante sapere a quale si riferisse Fontana quando in una lettera del 1937 a Tullio Mazzotti detto d’Albisola parla dell’«antipatico coccodrillo che mi disonora»). La lettura del carteggio con Tullio, edito da Abscondita due anni fa, è utile a comprendere il modus operandi di Fontana: per esempio, spesso faceva intervenire le maestranze di Albisola affidando loro anche finiture importanti come le riflessature. Ed è evidente l’importanza che attribuiva alla terracotta, quando in vista della prima Biennale del Dopoguerra, quella del 1948, decise: «Manderò solo ceramiche».
Il grande rilancio di Fontana come scultore e ceramista è recente, risale infatti alla grande mostra del Centre Pompidou del 1987-88, che riaprì il caso a livello internazionale. A proposito del rapporto con la materia Anna Coliva scrisse che Fontana opera «un travalicamento della materia in pensiero», così rischiando di farne uno gnostico. Era, semmai, un “sognatore della materia”. Lo vediamo anche a Venezia nei concetti spaziali che rimontano agli anni 50 e 60: un buco o un taglio, tanto più su una formella di terracotta, non sono mai soltanto ciò che sembrano: ma una ferita, un confine, un gesto, un suono, un’incisione, un grido, un solco, un volo, un’ombra… un segno. In definitiva, questa mostra veneziana ripropone schemi battuti in precedenza, a cominciare dalla fondamentale retrospettiva che si tenne al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris nel 2014, con 47 terrecotte-ceramiche su oltre 200 opere, alcune esposte anche oggi a Venezia.