Tuttolibri, 28 novembre 2025
Da leggere (e rileggere). La lezione di Arendt: fuori dalla logica del dominio c’è tutto un mondo
Victrix causa deis placuit sed victa Catoni, «La causa dei vincitori piace agli dèi, quella dei vinti a Catone»: sembra che fosse questa la citazione – una delle sue più amate – lasciata da Hannah Arendt nella macchina da scrivere la sera in cui morì, il 4 dicembre del 1975, nel suo appartamento newyorkese di Riverside Drive. Aveva 69 anni, insegnava filosofia politica alla New School for Social Research di New York, era ascoltata, letta, discussa e tradotta in tutto il mondo. Nonostante ciò, aveva continuato a percepirsi come una persona che, segnata dal trauma e dall’esilio, non poteva fare a meno di imprimere una distanza tra sé e ogni forma di riconciliazione stabile col mondo e con la storia.
In quei giorni di cinquant’anni fa, stava lavorando alla parte conclusiva di The Life of the Mind, La vita della mente: la sua ultima opera uscita postuma nel 1978. Aveva corretto le seconde bozze della sezione su Pensare, finita la stesura di Volere e iniziato a scrivere appunti per comporre le pagine dedicate a Giudicare. Messa a tema specifico durante le lezioni dedicate alla Terza Critica kantiana nei primi anni Settanta, la questione di come giudicare gli eventi in assenza di norme a priori e criteri trascendenti era stata in realtà da sempre, per così dire, la sua ossessione. Dalla scoperta delle “fabbriche della morte”, come ripete a tutti gli intervistatori, niente per lei «sarebbe stato più come prima». In che modo, allora, pensare e giudicare quando gli eventi, alla cui realtà si deve restare imperativamente fedeli, revocano in dubbio ogni validità del sapere tradizionale e dei suoi procedimenti? Come orientarsi se l’etica, con le sue distinzioni tra bene e male, «che ora appaiono di argilla», è diventata inservibile; se pure la filosofia, con le sue astrazioni, ha facilitato ideologie che hanno ucciso; se il diritto è rimasto muto davanti a delitti che eccedono ogni colpa?
Dalla fine degli anni Quaranta sino alla morte, Arendt traduce il proprio sconcerto nella difficile battaglia per riuscire a comprendere ciò che la storia le aveva presentato come incomprensibile. Le origini del totalitarismo, pubblicato per la prima volta nel 1951 e in una seconda importante edizione ampliata nel 1958, va letto in questa prospettiva: un testo che non prende posizione per il «liberalismo da guerra fredda», come a volte si è detto, ma che cerca di capire che cosa non ha funzionato, alla radice, nella «nostra tradizione occidentale». Certo, i regimi totalitari sono fenomeni dovuti a molteplici contingenze storiche e sociali, le quali non necessariamente dovevano cristallizzarsi in quel modo rovinoso. Tuttavia, Hannah Arendt non può fare a meno di chiedersi «che cosa è andato storto» nella storia europea, anche per quanto riguarda il glorioso percorso della sua filosofia. Se irresponsabili si sono dimostrati ai suoi occhi i devoti cultori del Geist tedesco, incapaci di evadere da una vocazione meramente contemplativa, e se la stessa metafisica (intesa in un modo molto vicino alla lettura di Heidegger) deve essere messa sotto accusa, non per questo Arendt smette di pensare filosoficamente. Nemmeno quando, scandalizzata dall’accademia di filosofi da cui proveniva, afferma chiaramente di voler voltare le spalle alla filosofia per dedicarsi alla teoria politica. Non è mai stata una teorica politica, né tantomeno una scienziata politica, nel senso stretto anglosassone del termine. Non analizza sistemi, non indaga meccanismi istituzionali, ma cerca di “riscoprire” e rinominare ciò che nell’esistenza è costitutivamente politico. E questo è ancora in senso proprio un gesto filosofico; anche se volto a smascherare la deriva di quella filosofia che, nell’aspirazione all’Uno e all’Eterno, ha dissolto la dimensione politica trasformandola in una logica di dominio. È una filosofia, quella di Arendt, che analogamente alla riflessione di molti pensatori dell’ultima parte del Novecento, porta la tradizione filosofica oltre se stessa e contro se stessa. Come dirà in Pensare, se anche il fondamento su cui si è retta per millenni la metafisica è crollato, tanto da spingere verso un’operazione di radicale decostruzione, la capacità di pensare non è venuta meno.
Insomma, è un campo segnato da forze contrastanti quello della riflessione arendtiana: attraversato, da una parte, dalla «presa in carico della crisi della tradizione», con il conseguente impegno a smontarne le costruzioni concettuali, a svelare le strategie discorsive di quell’universalità che spesso non è altro che negazione della differenza e, dall’altra, dalla persistenza di un’intenzione che, seppure non normativa, possa per così dire promettere la ricostituzione di un senso. La vita della mente riepiloga questa mai sopita ambivalenza, accettata e consapevole, nel tentare di restituire al pensiero la sua duplice forza: disfare di notte, come la tela di Penelope, la trama troppo stretta di concetti irrigiditisi durante il giorno e, allo stesso tempo, suggerire sommessamente elementi per un’etica del Sé. Perché, a differenza di alcuni pensatori post-nietzschiani degli anni Settanta e Ottanta, Arendt non può lasciarsi andare all’idea della fine irrimediabile di un soggetto della responsabilità. E se riconosce il tramonto delle false certezze di un Io che detta la legge a se stesso a partire dalla presunta sovranità della propria ragione, non può fare a meno di appellarsi ad una forma di soggettività che risponda, almeno parzialmente, delle proprie azioni e dei propri giudizi.
Non posso dilungarmi qui sulle pagine stupende dell’ultima fatica di Arendt, interrotta dalla morte. Nel loro continuo oscillare tra decostruzione, amarezza e speranza restituiscono il movimento di un pensiero che non si acquieta mai in un risultato e rifugge da ogni sintesi. Esse sono a mio parere tra le più belle e profonde, a tutt’oggi trascurate a favore della sua opera politica per eccellenza The Human Condition, del 1958, tradotta in italiano col titolo Vita Activa. La condizione umana.
Anche in questo caso, non si deve incorrere in un errore analogo a quello che alcuni interpreti commettono nei confronti del libro sul totalitarismo. Il legame tra libertà e azione politica, che sta al cuore dell’opera del 1958, non può essere letto come il semplice correlato di una teoria liberale. Così come i richiami costanti all’esperienza della polis non devono produrre l’impressione di un progetto volto a restaurare un modello del passato. Né nostalgica della politica greca né semplice sostenitrice della difesa dei diritti individuali, la filosofia politica di Hannah Arendt consiste soprattutto nell’esortazione a concepire il potere, e il soggetto che agisce, in maniera diversa dalle modalità tramandate dalla tradizione del pensiero politico. Senza lo sforzo di questa radicalità, ogni idea di politica rimane, a suo parere, imprigionata nel cerchio del dominio, destinata prima o poi ad inciampare in quella relazione verticale di comando-obbedienza che ormai riteniamo ovvia e inevitabile. Per questo non basta, per definire il senso arendtiano della libertà politica, ricordare che essa si riferisce ad un agire orizzontale e plurale che non può esprimersi attraverso la coercizione e la violenza, ma solo tramite il linguaggio. Allo stesso modo è riduttivo insistere su quell’idea di spazio pubblico, così cara all’autrice, come se si trattasse della mera ricerca di un’intesa intersoggettiva volta a legittimare chi governa, del riconoscimento reciproco tra le diverse identità degli attori o dei gruppi che agiscono sulla scena. Perché ogni ambito che taglia verticalmente lo spazio tra chi ritiene di avere potere e chi di quel potere è stato privato, tradisce quella pluralità anche conflittuale dell’agone che è la materia stessa di cui la politica è fatta.
Certo, la sfida arendtiana è in primo luogo volta a ripensare la politica al di fuori della dinamica del dominio: non soltanto come semplice limitazione dell’autorità centrale a tutela delle libertà private, ma esattamente come moltiplicazione delle fonti di potere e del potere stesso. Perché il potere, secondo Hannah Arendt, non coincide con la facoltà di dirigere e costringere il comportamento altrui. È invece l’espressione dell’energia che si sprigiona dall’azione, quell’energia che dà forma e significato alla vita del singolo e che la politica, con la sua dimensione corale, agonistica e conflittuale, moltiplica e potenzia. Il concetto di potere arendtiano, insieme a quello seppur diverso di Michel Foucault, ha segnato una vera e propria rivoluzione teorica nella filosofia politica continentale, innanzitutto dislocando la politica dal solo luogo delle istituzioni.
Vita Activa, allora, unanimemente considerata il testamento teorico politico di Arendt, più che al funzionamento dello stato e delle sue istituzioni, risponde a una domanda di senso: come conferire significato alla vita, in modo che diventi la vita di qualcuno che ha agito e che agisce nel mondo e per il mondo? Come riallacciare il legame tra politica ed esistenza fatto a pezzi e delegittimato nei regimi totalitari? A fronte dell’esito nichilistico della prima metà del Ventesimo secolo, Hannah Arendt rilancia la capacità formativa e performativa dell’agire; contro il risentimento nei confronti del nulla, invita a riscoprire la gioia dell’aprire insieme uno spazio comune. Quella gioia dell’essere liberi che consiste nella possibilità di incominciare sempre da capo. Non dobbiamo chiederle quello che non può e non vuole darci: le istruzioni per costruire, per consolidare e mantenere un ordine.