Avvenire, 28 novembre 2025
La risata del kitsch ci sommergerà
Prima che Gillo Dorfles la introducesse nel 1968, in Italia la parola kitsch era sconosciuta al lessico comune. Dopodiché, in piena coerenza con ciò che rappresenta, è dilagata sulla bocca di tutti in una catena di duplicazioni e conseguenti degradazioni fin nella pronuncia e nella grafia – il kitsch al quadrato. Cattivo gusto, versione grossolana e popolare di un modello alto e irraggiungibile (in primis economicamente), patologia estetica della società dei consumi di massa… Tutto vero: ma basta? Se lo chiede anche Maurizio Cecchetti nell’introduzione a Non serve scomodare gli dei. Il kitsch è dentro di noi (Officina Libraria, pagina 260, euro 22,00), in cui raccoglie una lunga serie di articoli usciti in un paio di decenni e poco più sulle colonne di questo giornale. E risponde così: «Poteva andar bene mezzo secolo fa, quando ancora esisteva un accordo condiviso nel parlato comune sul concetto di gusto. Ma anche questo ha perduto la sua evidenza; si sono indebolite anche le ragioni della traduzione con “cattivo gusto”, poiché il sottinteso etico non bastava più». Secondo il critico, da una parte il kitsch appare come un «dispositivo occulto di tensioni dissociative» o un agente di «aggressività... che investe ormai ogni ambito della rappresentazione collettiva e opera nella sfera subliminale», dall’altra – ed è una intuizione illuminante – è necessario prendere atto «che può esistere anche un kitsch buono, che raccoglie e dà voce ai desideri dell’uomo contemporaneo generando però nuovi conflitti fra soggetti che non condividono l’idea che questa svolta sia da prendere come ineluttabile».
Come allora definire oggi il kitsch contemporaneo? Maurizio Cecchetti propone “troppo di tutto”. Il kitsch oggi si presenta come una sommatoria di elementi contrastanti – funzioni, segni, linguaggi, stili, oggetti – che convivono grazie a un principio di eccedenza. È il “troppo di tutto”, appunto, un eclettismo che cancella parole come limite, misura o inibizione, lasciando che forme conflittuali si mescolino in un processo entropico capace, talvolta, di generare un ordine sorprendente, anche se spesso fittizio o frutto di una “fake news programmata”: in ogni caso, si potrebbe chiosare con categorie schmittiane, è un equilibrio destinato prima o poi a crollare su se stesso, in quanto fondato sul vuoto interno su cui è costruito (cos’è infatti il kitsch nel suo meccanismo intimo se non la surroga di una pletora di simulacri sull’altare di un prototipo perduto?) Con l’affermarsi della comunicazione di massa, osserva di nuovo Cecchetti, si è inoltre compreso quanto il kitsch sia autopoietico e performativo: una «forza cieca», capace di divorare altre linee genetiche dell’immaginario, livellando «l’esistenza, schiacciando nel finito ciò che era proiettato verso l’infinito». Quel che si crea è un circolo vizioso, in cui l’arte e la creatività si trovano invischiate: «E se questo accade è anche perché la critica stessa si fa paladina del Midcult pensando di favorire un’arte che risale dal basso in cui il kitsch la trascina».
In questa prospettiva si inserisce la lettura di Hermann Broch, citato in esergo, che ve-deva nel kitsch il sintomo di un “male etico”, in quanto tutti i sistemi di imitazione che lo coinvolgono, che essi siano economici, morali, estetici, «sono tutte copie, seppure in formato ridotto, del sistema dell’Anticristo». Per Broch, osserva Cecchetti, il kitsch «è la rivoluzione dal basso, che celebra il gusto popolare come rivincita sulle élite che per secoli hanno dettato le regole e i rituali della società». Oggi questa dinamica si traduce in un recupero di scorie, un gesto affine all’ironia dei ready made duchampiani, mentre la pubblicità ne è il «vertice sublime» grazie a logiche associative che sfiorano la psicoanalisi. O almeno lo era, perché i prodotti dell’intelligenza artificiale, basati proprio sul principio di imitazione derivativa e su principi linguistici massificati, sono destinati a scalzarla. In un certo senso si può pensare il kitsch come a un falso diamante: nonostante non sia autentico (per Broch il kitsch è non-verità), la sua ricerca ossessiva di simulare la perfezione dell’originale (la verità dell’arte) rivela le nostre aspettative e i valori superficiali che ricerchiamo, proprio come avviene in una macchina IA che produce verosimiglianze.
Sono stati Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, fini analisti delle trasformazioni della società contemporanea, a descrivere per primi la “nuova età del kitsch” come la “cultura del troppo”: «Troppi di turisti – scrivono –, di post sui social, di carrelli della spesa, di corpi obesi, di alimenti sovra-lavorati, di pubblicità invadente, di immagini sessiste. Troppo di tutto. Poiché tutto perde il suo sottinteso di totalità e si riduce all’abbondanza: gli hamburger che colano di ketchup, le sculture di Koons, i romanzi su Netflix». Cecchetti osserva che, in un’ultima analisi, nella realtà il kitsch è «un’abbondanza colpevole». Di fronte a tutto questo eccesso bulimico e asfissiante, in molti invocano la sobrietà. Una battaglia impari a fronte di un kitsch divenuto «passa-tempo», una sorta di tunnel in cui ci troviamo imbottigliati e intorpiditi da una soddisfatta stupidità: «In quanto espressione della più ferrea immanenza alle logiche della comunicazione, non mira al superamento del tempo stesso, ma consiste in una puerile fuga dal sentimento della fine che, nel riciclo delle forme indotto dalla continua ricerca di una soluzione ironica del tragico, ne determina anche la cultura ludica come scoria e deiezione di un sistema a una sola dimensione, il presente, sul quale si regge il circolo chiuso di produzione e consumo».