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 2025  novembre 28 Venerdì calendario

Le balle sulle pericolose riforme di destra

Ci sono ottime, interessanti e rispettabilissime ragioni per avere seri dubbi su quello che è l’impianto delle quattro grandi riforme su cui ha scelto di puntare la maggioranza di centrodestra per dare un senso ulteriore alla sua esperienza di governo, in questi ultimi scampoli di legislatura. Le quattro riforme, lo sapete, sono quelle che ormai conoscete a memoria. La prima riforma è quella della giustizia, unica riforma costituzionale che il governo ha scelto di approvare in tempi utili per celebrare un referendum prima delle prossime politiche. La seconda riforma è quella del premierato, che il governo ha scelto di portare nuovamente in Aula a gennaio, dopo averne abilmente rallentato l’iter, in modo da approvare la riforma costituzionale non in tempo per celebrare un referendum in questa legislatura, come fece già nel 2005 il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi con le sue riforme istituzionali, per le quali il referendum si celebrò nella legislatura successiva, cosa che invece non fece Matteo Renzi nel 2016, quando celebrò il referendum costituzionale a metà della sua esperienza di governo. La terza riforma, di cui il centrodestra tende a parlare solo in prossimità di elezioni a cui tiene particolarmente la Lega – è successo in queste settimane prima del voto in Veneto ed era già successo nel maggio del 2024 prima del voto alle Europee –, è la riforma dell’autonomia, riforma pesantemente azzoppata nel dicembre del 2024 dalla Corte costituzionale, e l’impressione che si ha quando si ragiona attorno a questa riforma è che alla fine la Lega, un tempo votata alla cura del nord e ora votata alla cura dell’immagine di Salvini, passerà alla storia per aver fatto parte di un governo intenzionato ad accelerare un unico dossier sull’autonomia: quello di Roma (ladrona?) capitale, già approvato il 30 luglio in Consiglio dei ministri, con sostegno bipartisan. La quarta riforma in questione, quella forse più delicata, una riforma non costituzionale ma forse esistenziale, è quella di cui, con dubbio e sospetto tempismo, ha iniziato a parlare il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, un minuto dopo i risultati delle regionali, rafforzando l’idea che il centrosinistra, per quanto debole, fragile, diviso, sia comunque più competitivo rispetto al 2022, e quella riforma, come ormai da tradizione quando una legislatura volge al termine, riguarda la legge elettorale, che sta alle maggioranze in scadenza più o meno come il presepe a Natale. Nessuna di queste riforme è perfetta, impeccabile, irreprensibile, e l’opposizione ha motivi più che legittimi per scommettere sullo status quo su ogni campo dello scibile umano. Quello che però suona scarsamente credibile, per utilizzare un eufemismo non offensivo – per evitare cioè di essere saccenti e parlare di argomentazioni ridicole – è un’argo mentazione, molto utilizzata in questi giorni, secondo la quale le riforme a cui sta lavorando il centrodestra sono figlie non solo della famosa agenda di Licio Gelli della P2 (ieri, mirabilmente, Augusto Barbera sul Corriere della Sera ha ricordato, tanto per capire quanto siano scarsamente credibili coloro che, per denigrare una qualsiasi riforma, la fanno risalire ai tempi della P2, che anche il taglio del numero dei parlamentari, se proprio vogliamo dirla tutta, era uno dei programmi di Gelli) ma sono figlie della peggiore, becera, insostenibile e pericolosa cultura della destra estremista, populista, nazionalista, sovranista e naturalmente fascista. La comfort zone del fascismo, o meglio dell’antifascismo, permette a chi la abita di non dover fare particolari sforzi di creatività, di fantasia, nel trovare argomentazioni forti e credibili per indebolire, con la forza dei contenuti, le proposte degli avversari.
Basta dire, dandosi di gomito, “fascisti, non vi faremo passare”, e tutto passa in cavalleria. Se si sceglie però di uscire per un istante dalla comfort zone, si scoprirà che, tra le tante tesi solide che potrebbero essere utilizzate per combattere la destra, non c’è alcun modo di dimostrare che le quattro pericolosissime riforme a cui sta lavorando il governo di centrodestra siano riforme figlie di una pericolosa cultura populista, di destra ed estremista. Non è una battaglia di destra, ovviamente, la riforma della giustizia, considerando il fatto che la separazione delle carriere, la riduzione del peso delle correnti nel Csm, l’introduzione di criteri più trasparenti per valutare l’operato dei magistrati sono temi che la sinistra riformista, che prima dell’arrivo della sinistra gruppettara era una componente viva del mondo progressista, ha sempre portato avanti, specie dopo l’introduzione del processo accusatorio voluto da un uomo non di destra come Giuliano Vassalli. Non è di destra l’idea di dare maggiori poteri al presidente del Consiglio, come prevede la legge sul premierato, e dagli anni Novanta in poi tutte le commissioni bicamerali hanno ragionato su come rafforzare i poteri del premier (e per quanto il centrosinistra sia stato in passato restio a rafforzare i poteri del premier a discapito del capo dello stato, non si capisce in che modo, dando più poteri al premier, non sia automatico toglierne un po’ al capo dello stato), creando un legame più stretto tra azione di governo e mandato popolare, e come sanno tutti i cultori della materia una bozza di premierato si trovava sia nel primo programma dell’Ulivo sia nella bozza Salvi della Bicamerale. Allo stesso tempo, quando si parla di autonomia, non si può non ricordare che il Titolo V lo approvò il centrosinistra nel 2001, a maggioranza, vincendo anche il referendum nel 2002, e non si può non ricordare che negli ultimi anni, ad aver sostenuto la necessità di completare il percorso iniziato nel 2001, sono stati non solo molti governatori di centrosinistra, in primis l’ex governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, attuale presidente del Pd, ma anche volti di primo piano dell’attuale cabina di pilotaggio del Pd. E sono passati appena sei anni da quando, da ministro degli Affari regionali, uno dei politici più vicini a Elly Schlein, Francesco Boccia, sosteneva a gran voce la necessità di approvare un disegno di legge quadro sull’autonomia differenziata. Stesso discorso, in fondo, per la legge elettorale. Il centrodestra, come sapete, sta pensando di lavorare a una nuova legge senza collegi uninominali, con soglia di sbarramento al tre per cento, un premio di coalizione per chi arriva tra il 40 e il 42 per cento. Il modello delle regioni, nel 1999, trovò già ai tempi il pieno consenso del Pd. Nel 2012, dunque non una vita fa, il centrosinistra presentò una riforma elettorale (il ddl Finocchiaro- Zanda) che prevedeva, per i primi arrivati alle elezioni, un premio di maggioranza fisso con 93 seggi alla Camera e 46 al Senato, pari al 15 per cento dei seggi nazionali. Ma in questo caso, più che la storia del passato conta la cronaca del presente. E per quanto al centrosinistra possa far comodo contrastare con tutti i mezzi a disposizione ogni riforma proposta dal centrodestra, compresa la legge elettorale (che solitamente però i partiti che scelgono di cambiare per non perdere finiscono poi per perdere regolarmente le elezioni), la cronaca del presente ci dice che se davvero Elly Schlein vuole fare di tutto per evitare “inciuci” nella prossima legislatura, per evitare “stalli” dopo le prossime elezioni e per far sì, in definitiva, che vi sia qualcuno in grado di governare e qualcuno in grado di fare opposizione (“Meloni non vuole inciuci con la sinistra: non si preoccupi. Questa sinistra non è disponibile”, ha detto un anno fa la segretaria del Pd), non si capisce quale altro sistema esista in natura, se non quello del premio di maggioranza, per evitare che, in caso di non vittoria di una coalizione, vi possa essere la possibilità, per destra e sinistra, di governare insieme. Il vero dato, dunque, come nota un vecchio saggio della politica, è che su questi temi, temi trasversali, è incredibile come non si sia trovato il modo di convergere in Parlamento ma si sia preferito, da entrambe le parti, mettere in scena una farlocca guerra civile. La destra, naturalmente, lo ha fatto per questioni identitarie, per provare a utilizzare queste riforme potenzialmente trasversali anche per dividere il centrosinistra (con la giustizia può accadere, con il resto chissà). La sinistra, invece, lo ha fatto partendo da una valutazione diversa, mossa cioè dall’idea non solo di non uscire dalla sua comfort zone dell’antifascismo ma anche di provare a ritrovare la strada del consenso facendo opposizione, prima ancora che all’attuale governo di destra, ai governi del centrosinistra del passato. Ci sono ottime, interessanti e rispettabilissime ragioni per avere seri dubbi su quello che è l’impianto delle quattro grandi riforme su cui ha scelto di puntare la maggioranza. Ma nessuna di queste ragioni può coincidere con la tesi più diffusa tra i nemici del governo: sono riforme di destra, sono riforme populiste, sono riforme autoritarie, sono riforme fasciste. Ripassare la storia può aiutare a opporsi al governo senza entrare, direttamente dalla stanza della comfort zone, nel salotto delle tesi che qualcuno, bonariamente, potrebbe definire non credibili e qualcun altro, più saccente, potrebbe definire semplicemente ridicole.