La Stampa, 28 novembre 2025
Timothée Chalamet: "Grazie a Bob Dylan ho capito che voglio essere il migliore"
«Questo è il personaggio che mi somiglia di più, almeno a com’ero prima di avere una carriera. Magari non è simpaticissimo, ma è molto motivato nel raggiungere i suoi obbiettivi. Ho la stessa determinazione aggressiva: non mi accontento di un no come risposta. Anche perché nell’industria cinematografica sei rifiutato di continuo. Devi essere il primo a credere in te stesso». Timothée Chalamet non molla un centimetro. Come detto lo scorso anno sul palco dei SAG Awards, dove è stato premiato per l’interpretazione di Bob Dylan, è «in cerca della grandezza». Anche Marty Mauser, protagonista di Marty Supreme, giocatore di ping pong che vuole essere il migliore al mondo, la pensa allo stesso modo. Il film di Josh Safdie (che si è ispirato vagamente alla vita di Marty Reisman, campione tra gli Anni ’50 e ’60), in sala dal 22 gennaio, è stato presentato a sorpresa in anteprima al Torino Film Festival.
È soddisfatto della sua prova?
«Come ha detto Bob Dylan: non guardarti indietro. Quello che è fatto è fatto. Sono molto orgoglioso del lavoro: nessun altro regista, prima di Josh, ha visto in me questa attitudine quasi animalesca».
In che senso?
«Sono molto affezionato ai film che, tra i 22 e i 26 anni, mi hanno lanciato. Penso a Call Me By Your Name di Luca Guadagnino, Piccole Donne o Wonka. Ma sento che, come attore, per me c’è stata una svolta da quando ho interpretato Bob Dylan in A Complete Unknown. All’inizio non avevo distrazioni. Adesso invece se scelgo un film è proprio perché, nonostante tutto il rumore che mi circonda, sento di poter dare il massimo in quel ruolo. Grazie a questi ultimi due ruoli ho capito che il mio dono è poter essere un attore al massimo livello. Non credo di essere arrogante: questo atteggiamento spinge tutti, anche chi mi ascolta, a voler essere più bravi e a dare il massimo».
Come si libera del rumore?
«Bloccando tutto il resto. Quando sono sul set spengo il telefono. Mi serve concentrazione assoluta: devo essere quel personaggio e basta per i 2-3 mesi che mi sono stati concessi con lui. Anche perché oggi la cultura è molto cambiata rispetto a quando ero un ragazzino. A 15 anni, nel 2010, ascoltavo hip hop che mi diceva di poter aspirare ad arrivare in cima senza dovermene vergognare. Oggi invece c’è un sorta di rancore verso tutto ciò che è considerato elitario. E Hollywood è inclusa. Quindi tutti hanno paura di cosa dire e si sentono costantemente in colpa. Devo necessariamente isolare la mia mente».
Come si spiega questo rancore?
«C’è del malessere e non è colpa di nessuno. Lo vedo soprattutto nei giovani cresciuti durante il Covid, che hanno fatto la scuola su Zoom. È come quando sono arrivati i Sex Pistols dopo i Beatles: entrambi hanno fatto grande musica, ma i Pistols hanno detto: voi avete avuto il vostro momento, ora tocca a noi e si fa come diciamo. I ragazzi oggi sono più punk».
Pensa mai invece all’influenza che lei può avere sugli altri? Anche politica?
«Pensare a me stesso come a qualcuno di importante è strano. Come Dylan, non voglio essere una bussola morale. Non voglio nemmeno essere l’opposto però. Credo non si debba confondere la percezione della grandezza con la ricerca pratica della grandezza. Oggi la capacità di attenzione delle persone è sempre più ridotta e ci si concentra soprattutto sull’aura di qualcuno. Si guardano i vestiti, l’orientamento politico, la popolarità, ma non tutto il lavoro che c’è dietro. Bisognerebbe invece pensare soprattutto a quello. Anche perché, senza essere fatalista, in giro ci sono molte più storie di insuccesso. La cosa importante è rimanere con la testa bassa e lavorare».
A proposito di lavoro: nelle scene di ping pong è sorprendente. Come ha fatto?
«Mi sono allenato con Diego Schlaaf e sua moglie Wei: sono un’autorità a Hollywood quando si tratta di ping pong. Hanno lavorato anche con Tom Hanks per Forrest Gump. Sono 4-5 anni che ci prepariamo: mi sono costantemente allenato tra un progetto e l’altro. Poi, 3 mesi prima di cominciare le riprese, mi sono immerso totalmente in questo sport: al gesto atletico abbiamo aggiunto delle vere e proprie coreografie».
L’avvicinarsi dei 30 anni le mette ansia?
«So di essere ancora giovane. E comincio a essere meno paranoico. Adesso so chi sono e che la mia vita è la mia vita. Certo, potrei sempre calpestare una mina. Ma adesso sono più consapevole. E ribadisco: voglio continuare a fare grandi film con grandi registi, che mi diano la libertà di poter partecipare alla costruzione dei ruoli, quasi come fossi un po’un autore. Ma non farei mai il regista però: troppa pressione».