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 2025  novembre 28 Venerdì calendario

"Io, al servizio di cinque presidenti dalle urla di Pertini all’ironia di Ciampi"

Vivere all’ombra di cinque presidenti della Repubblica significa aver attraversato 50 anni di storia italiana, ma quando parli con Albertina Gasparoni, la fa sembrare una cosa normale. Dal 1972, alla segreteria particolare con Giovanni Leone, alla fine del 2003, con Ciampi. Una storia che inizia in Piemonte, nel 1946 e che continua a Roma dove una ragazza piena di sogni e di iniziativa vince un concorso al ministero degli Esteri. Il suo primo incarico nella segreteria di Aldo Moro quando era ministro degli Esteri.
Come ci arrivò?
«Mi notarono durante il concorso, era il 1969, che mai avrei pensato di vincere visto che c’erano pochi posti e molti candidati. Io però sapevo bene le lingue, inglese, tedesco e francese. Divenni la segretaria del capo di gabinetto del ministro Moro, l’ambasciatore Luigi Cottafavi. I miei ricordi di quel periodo li ho condivisi anche con la sua vedova, Agnese, quando durante la presidenza Scalfaro, in occasione di una messa in ricordo del marito, arrivò al Quirinale con un’ora di anticipo. Così le feci compagnia in un salottino adiacente alla Cappella. Le ricordai quando telefonava la sera alla Farnesina per capire quando sarebbe tornato a casa suo marito».
Faceva tardi?
«Nella lettera per ringraziarlo degli anni lavorati insieme scrivemmo: “nonostante gli orari folli che ci faceva fare”. Gliela diede il maresciallo Leonardi e lui se la mise in tasca, e poi la tirò di nuovo fuori per rileggerla. La signora Moro mi chiese di mettere per iscritto queste memorie. “Tutti conoscono mio marito come statista”, mi disse, “ma non lo conoscono da un punto di vista umano"».
Come era dal punto di vista umano?
«Un gran signore. Anche quando gli chiedevamo di spiegarci cosa aveva scritto nei suoi appunti che ci dava da trascrivere era sempre disponibile. Lui scriveva spesso in macchina, e aveva una brutta calligrafia. A noi arrivavano dei geroglifici e questo ha fatto sì che diventassi talmente esperta nella sua calligrafia che quando scrisse dalla prigionia, mi consultarono per capire se quelle lettere potevano essere considerate autentiche».
Cosa rispose?
«Che lo erano anche se era una calligrafia completamente cambiata, era tutto scritto in modo chiaro perché tutti capissero. Il guaio è che non hanno capito».
Lei conosceva bene il maresciallo Leonardi che morì quando rapirono Moro insieme a tutta la scorta.
«Anche lui era di Torino e parlavamo spesso delle nostre origini. Ha dedicato tutta la sua vita al Presidente Moro. Un giorno mi disse: “Quando siamo in mezzo alla folla, e vedo qualcuno che si mette una mano in tasca anche per prendere un fazzoletto, sono già pronto con la mano sulla pistola”. Quando lasciai la Farnesina per andare al Quirinale, con il presidente Leone, lui disse scherzando che li stavo tradendo. E io risposi. “no vado a prepararvi il terreno…."».
Invece Moro venne ucciso dalle Br e il presidente Leone, poco dopo, si dimise. Cosa ricorda di quel giorno, il 15 giugno del 1978?
«Dal giorno prima avevamo lavorato per predisporre un’intervista dove il capo dello Stato rispondeva punto per punto alle varie accuse. Poi a un certo punto il Presidente decise di dimettersi. E non volle sentire ragione. Per cui iniziammo a lavorare al discorso di addio agli italiani. Era stata montata una campagna denigratoria che lo fece soffrire moltissimo».
Venne abbandonato dal suo partito, da Andreotti e Zaccagnini?
«Non amo fare nomi. Ma certamente si rese conto che non aveva gli appoggi sui quali lui sperava, era stato abbandonato. E prima ancora calunniato».
Si riferisce al libro di Camilla Cederna?
«Sì, ma non solo lei. Si sbizzarrirono con la fantasia a dirne di tutto e di più. Come l’episodio in cui uno dei figli del presidente nella tenuta di San Rossore spara da un elicottero su pecore e daini. Assolutamente inventato.
Altro che “tre monelli”, i figli di Leone erano dei bravi ragazzi, educatissimi. Esuberanti come i giovani della loro età».
E arriviamo al suo presidente “preferito” (possiamo dirlo?), Sandro Pertini.
«È stata la più grande gioia della mia vita professionale».
Pertini non aveva un carattere facile.
«Noi abbiamo avuto anche uno scontro epico, una sera che mi chiese di passargli al telefono Scalfari. E io chiamai il direttore di Repubblica. Dopo un bel po’ sento suonare furiosamente il campanello, corro nella sua stanza e lui mi sbranò: “che diavolo mi ha combinato? Io le ho detto di chiamarmi Scalfaro, lei vuol farmi sbattere sui giornali, ma si rende conto di quello che ha fatto?”. Io mantenni il punto e andò su tutte le furie, si mise a urlare come un pazzo e mi cacciò».
E come è finita?
«Io ero mortificata, piangevo nella mia stanza e quando sentii che mi stava chiamando con l’interfono non risposi. A un certo punto venne lo staffiere e mi pregò di andare dal Presidente e risolvere la cosa se no quella sera nessuno sarebbe potuto tornare a casa. Così andai e Pertini mi venne incontro scusandosi e dicendomi di aver capito che si era confuso. Al che io lo rassicurai: “non si preoccupi signor Presidente, non è successo niente”. Ma lui, insisteva: “non è vero che non è successo niente, sono stato un villano e non posso andare a casa senza averle chiesto scusa e aver ottenuto il suo perdono"».
Una parola che secondo lei identifica Pertini?
«Rispetto. Ho imparato da lui il rispetto del prossimo, quando l’ho visto alzarsi per andare incontro ad Almirante che entrava nella sua stanza».
E la signora Pertini, Carla Voltolina, che si è rifiutata di andare a vivere al Quirinale?
«Due caratteri forti e fumantini. Avevano 25 anni di differenza e quando si misero insieme Pertini aveva paura che potesse non funzionare, invece poi diceva sempre che Carla era stata per lui una fonte di serenità».

E lei che rapporto aveva con Voltolina?
«Ottimo, ma quando ormai era già vedova da cinque anni. Ci siamo incontrate in occasione della commemorazione a Camere riunite del presidente. Io a quel punto ero al cerimoniale e mi mandarono a casa loro, nella famosa mansarda di Fontana di Trevi, per sentire quali fossero le sue esigenze in occasione della cerimonia. A dispetto di come la raccontavano trovai una donna di una dolcezza infinita e nacque subito una bella amicizia, perché anche lei era torinese».
E poi arriviamo a Cossiga, di cui ho letto che lei non aveva una grandissima opinione.
«E, creda, sono stata molto prudente».
Ha detto che quella di Cossiga era un’intelligenza deviata.
«Non me lo faccia ripetere, per favore, perché dopo quelle parole un nipote acquisito mi ha attaccata duramente. Sono rimasta poco con Cossiga comunque, perché il cerchio magico pensò bene di isolarmi. Così chiesi il trasferimento al cerimoniale».
Fino alla presidenza di Oscar Luigi Scalfaro.
«Un settennato tranquillo. Era un uomo molto educato, rispettoso, anche se magari non ha avuto la presa che poteva avere nel cuore degli italiani».
E poi Ciampi.
«In questo caso il rapporto maggiore io l’ho avuto con la moglie con cui ancora mi sento. Fra un mese compirà 105 anni, una donna vivacissima che faceva sempre di testa sua. Nel senso che lei era spontanea e se decideva di dire o di fare una cosa la faceva, indipendentemente dal fatto che fosse il Papa».
Un episodio?
«La coppia presidenziale era a un pranzo in Vaticano con Papa Wojtyla. Finito il pranzo, la signora Franca va in cucina per ringraziare e trova delle suorine giovani a cui era stato detto di non muoversi dalla cucina, ma lei le ha trascinate comunque nella sala e entrando disse: “Carlo, guarda che belle ragazze ti ho portato”. E il presidente imbarazzatissimo disse: “Santità, la perdoni, è mezza matta"».