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 2025  novembre 28 Venerdì calendario

Una ogni sei anni e mezzo. La «magnifica» ossessione della legge elettorale

In Italia cambiamo la legge elettorale come si fa coi calzini. Da trent’anni a questa parte ne abbiamo avute quattro diverse (due sono state bocciate dalla Corte costituzionale, una non è mai andata in funzione), e la quinta è in arrivo adesso. Ci avviamo così alla rimarchevole media di una riforma ogni sei anni e mezzo.
In Inghilterra il sistema elettorale è sempre lo stesso dall’Ottocento. In Germania è cambiato di poco dalla caduta del nazismo. Il doppio turno è il marchio di fabbrica delle istituzioni francesi, al punto che si chiama «alla francese». Da noi, invece, giocare con la legge elettorale è una magnifica ossessione della politica. Quasi una dannazione. Il segno particolare di una democrazia fragile, che non potendo o sapendo cambiare la Costituzione, cambia la legge elettorale.
È una storia che comincia da lontano, segnando spesso l’inizio o la fine di interi regimi. Il proporzionale introdotto nel 1919 pose termine all’era liberale. Il fascismo è cominciato con la legge Acerbo del 1924. Il centrismo, stagione d’oro del dopoguerra, è finito col fallimento della riforma di De Gasperi, soprannominata dai comunisti «legge truffa», anche se col senno di poi tanto truffa non era. La Prima Repubblica è stata affondata da un referendum del 1991 su un dettaglio, apparentemente marginale, come le preferenze multiple.
Da allora non ci siamo più fermati. Le maggioranze di turno hanno sempre «aggiustato» alle proprie convenienze le norme che trasformano i voti popolari in seggi. O almeno ci hanno provato. Un’antica massima scaramantica ricorda infatti che tutti quelli che ci hanno provato, poi hanno perso le elezioni.
Porta il riverito nome di Mattarellum, inventato dal latinorum di un grande studioso, Giovanni Sartori, l’introduzione nel 1993 del sistema maggioritario (75% di seggi assegnati col collegio uninominale, e il restante 25 in quota proporzionale), che segnò il passaggio dalla Prima Repubblica agonizzante sotto i colpi della procura di Milano a una Seconda che, a sorpresa, sarebbe stata battezzata dal più imprevedibile dei padri: Silvio Berlusconi. È funzionò, per un po’.
Poi arrivò la riforma che porta il meno riverito nome di Porcellum, già di per sé rivelatore della «porcata» commessa, riconosciuta del resto dallo stesso autore, l’immaginifico Calderoli. Nel 2005 in fretta e furia, alla vigilia di elezioni che il centrodestra prevedeva di perdere, si tornava così al proporzionale ma con liste bloccate e premio di maggioranza: senza fissare però nessuna soglia di voti popolari da superare per ottenerlo (soglia che c’era perfino nella legge Acerbo che aprì le porte al fascismo, il 25%, e nella cosiddetta «legge truffa», il 50%). Ma almeno allora le coalizioni erano solo due, e dunque chi vinceva sfiorava per forza la maggioranza assoluta dei consensi.
Arrivò però l’ondata del populismo, e il terzo incomodo dei Cinquestelle. E allora a godersi il Porcellum fu la sinistra guidata da Bersani, che con appena il 29,55% dei voti si prese la bellezza di 344 deputati; mentre Berlusconi, secondo per un soffio con il 29,18%, ne ottenne 220 in meno. Eterogenesi dei fini.
A questa vera e proprio roulette elettorale dovette porre rimedio la Corte costituzionale (sempre benedetta sia) che si affrettò ad abrogarla. Ci pensò così la nuova stella del firmamento politico italiano (presto rivelatasi solo filante): Matteo Renzi. Due anni dopo, nel 2015, ecco il patriottico Italicum. Anche lì il premio di maggioranza, ma almeno con una soglia: il 40% dei voti popolari da superare. E questo alla Consulta andava bene. Però Renzi, come Icaro, voleva volare più in alto, verso quei «pieni poteri» che ora paventa nella Meloni, e stabilì che se nessuno raggiungeva il 40%, allora si sarebbe fatto un ballottaggio tra i primi due arrivati; che era sicuro di vincere, blindandosi così a Palazzo Chigi.
L’irragionevolezza del sistema, combinata con la sonora bocciatura renziana nel referendum, indusse la Corte a metterci di nuovo una pezza; e così anche l’Italicum finì nella pattumiera delle leggi elettorali, senza peraltro essere mai stato usato. Renzi affidò allora al mite Rosato il compito di inventarsi qualcosa che reggesse almeno per una elezione. Risultato, il Rosatellum è ancora in vigore: una specie di ricetta da farmacista, tre ottavi di seggi assegnati nei collegi uninominali, ma decisi su una unica scheda proporzionale con liste bloccate. Di fatto lo strapotere dei partiti, che si prendono i voti e poi danno i seggi a chi vogliono.
S’avanza ora il Donzellum. Avendo capito che in quei tre ottavi di collegi uninominali la somma di tutti i contrari a Giorgia Meloni, divisi alle ultime elezioni ma uniti alle prossime, stavolta potrebbe portare quantomeno a un pareggio; e siccome tutte le leader di oggi escludono con fare «macho» un accordo in Parlamento dopo il voto, e pretendono che uno vinca; ecco tornare il premio di maggioranza, seppur dotato di soglia (probabilmente il 40%). Il gioco dell’oca ricomincia.
Non ci avete capito niente? È comprensibile. Resta la sgradevole impressione che il partito della premier voglia correre ai ripari, avendo visto il risultato del Campo largo in Campania e Puglia. E che il partito della Schlein non veda l’ora, per costringere così anche Conte nella logica bipolare, ma farà finta di alzare le barricate «in nome della Costituzione». Un consiglio: in materia di legge elettorale non credete mai ai politici. Quando tocca a loro tentano il golpe, quando tocca agli altri gridano al golpe.