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 2025  novembre 28 Venerdì calendario

«Io, una napoletana a Venezia per dirigere il carcere femminile. Qui dentro c’è lavoro e amore, non vedo le sbarre tra me e loro»

Papa Francesco, visitando i carcerati, diceva: «Potrei essere qui io al posto loro». È capitato di pensarlo anche a lei? «Sempre. Ci penso sempre. Non potrei fare questo lavoro diversamente. Mi colpì moltissimo la frase di un docente nell’anno di tirocinio in più carceri alla scuola superiore dell’esecuzione penale: “Ricordatevi che ciò che vi divide dai detenuti non sono sbarre di ferro: è carta velina”. Aveva ragione. È carta velina. Talmente sottile che...»
Tre mesi dopo essersi insediata come direttrice della Casa di reclusione femminile della Giudecca, Maurizia Campobasso, napoletana del Vomero elegante («Sto ′e casa ncopp’o Vommero», canta Gianni Fiorellino per smarcarsi ironico dai «vicoli»), madre penalista e padre civilista, laurea in giurisprudenza, anni di esperienza a Roma al Consiglio di Stato e poi all’Antitrust, non è ancora stata «scarcerata». Nel senso che, ovvio, dopo aver passato tutta la giornata dalla mattina alla sera senza un attimo di respiro, può uscire quando vuole dall’antico convento-carcere. Ma è così piena di cose da fare che non è ancora riuscita a tornare nella sua casa romana.
È innamorata: di Venezia. Amore a prima vista.
«C’ero stata, prima di venirci a lavorare, solo una volta».
Ma come: solo una?
«A maggio. Mio fratello compiva quarant’anni e decise che per fargli festa dovevamo venire tutti insieme qui, famiglia e amici. Partimmo da Napoli in venticinque col primo volo all’alba e tornammo indietro con l’ultimo a tarda sera».
Toccata e fuga: non avrà visto niente...
«Tutto. Su e giù per i ponti. Una giornata campale. Pazza e bellissima. Abbiamo camminato tantissimo... Visto il ponte di Rialto, quello dei Sospiri, il vecchio mercato del pesce... Bevuto spritz mangiando un crostino di baccalà... Pranzato all’Hard Rock Cafe...».
Mica tanto «venessian»...
«Mio fratello (sospiro) non ama tanto la cucina italiana... Il resto però fu indimenticabile. Giro in gondola compreso».
Col gondoliere che cantava «Nineta monta in gondola» o «Torna a Surriento»?
«Non ricordo. Perché?»
Perché anni fa furoreggiò una polemica che finì sul «New York Times»: l’assessore alla Cultura Augusto Salvadori si lagnò che i gondolieri intonavano ai turisti «’O sole mio»...
«Ricordo solo i cori di buon compleanno. In ogni caso, per sua curiosità, ho cominciato subito prendere lezioni di dialetto veneziano».
Esempio?
«’A boca no se straca se no ‘a sa de vaca. La bocca non è sazia se non sa di vacca. Non è un buon pranzo se alla fine non c’è una punta di formaggio».
Promossa.
«C’è un ispettore della matricola che ridendo mi dà ripetizioni: “Dottoressa, per dire a uno che è matto deve dire così: Ti xe fóra come un balcón”»
Funziona?
«Sì. La città mi ha accolto benissimo. Tra le ipotesi di sede, quando ho fatto il concorso, c’era anche Pescara. Più vicina a Roma. Ma pensai: quale altro modo c’è per conoscere davvero Venezia se non andarci a vivere? Mai stata più felice d’essere venuta qui. Un impatto meraviglioso».
Ha una storia lunga, questo carcere, che fu un convento prima di diventare un ospizio per «prostitute redente»...
«Sì, molto lunga. Del resto è in Calle delle Convertite. Ma come racconta un documentario, bellissimo, “Le farfalle della Giudecca” di Rosa Galantino e Luigi Ceccarelli (con la voce narrante di Ottavia Piccolo) presentato anche alla Mostra del Cinema Venezia, è una realtà che, grazie anche agli spazi, con camerate molto grandi dove dormono i sei, riesce a essere più “ospitale” e “accogliente” di altre».
Privacy però, pochina...
«Vero. In qualche modo, però, le donne si fanno più compagnia. Si creano rapporti un po’ più forti. Sono stanze dove ciascuna ha comunque il suo spazio. In questo momento abbiamo novanta detenute adulte, per metà straniere, e due “giovani adulte, diciamo noi, con meno di 25 anni. Non c’è, per fortuna, il sovraffollamento di altri posti. Diciamo che, anche se l’area è vastissima, è comunque un carcere relativamente piccolino».
Evasioni?
«Scavare sotto i canali, scusi se sorrido, è complicato...».
Più facile gestire una realtà così femminile o maschile?
«Dipende. Gli uomini sono più capricciosi, come i bambini. Quando litigano, però, magari se la fanno passare prima... Le donne forse solo più “delicate”. Anche più umorali però. Legano molto. Si innamorano. Qui dentro non c’è uno stigma negativo dell’omosessualità come nei penitenziari maschili. Non voglio sostenere le ragioni dell’omosessualità ma certo si sentono meno sole... In questo contesto poi...».

Cioè?
«La Giudecca è ancora difficile da raggiungere dal resto d’Italia. E costoso. Una pena supplementare».
In un articolo del 1980 l’inviato del «Corriere» Gino Fantin raccontò che venire qui era per molte «un lusso» e che una mamma aveva detto: «I miei figli stanno coi nonni a Foggia: li ho visti complessivamente 36 ore in 5 anni».
«È cambiato tutto. Ma è vero: è ancora lunga, per le famiglie, arrivare qui. Ci aiutano i video-colloqui».
Una volta il regolamento prevedeva «una telefonata ai figli della durata di sei minuti ogni 15 giorni».
«Non è più così. Coi figli minori fanno anche una telefonata al giorno. Certo, il carcere resta un carcere. Ma rispetto a una volta...».
Bambini?
«Tre. La più piccola è nata il giorno in cui sono arrivata. Un altro ha otto mesi, il più grandicello tre anni. Le poliziotte, nel loro spazio, non hanno neppure le divise proprio perché i piccoli non crescano sentendosi “in prigione”...».
È passata di qua anche Shakira, la scippatrice che avrebbe accumulato qui a Venezia una sessantina di denunce?
«Credo di sì. Ma non da quando sono qui. Del resto, questa è una casa di reclusione non circondariale. Difficile, se fermano una scippatrice, che la portino qui».
Che ne pensa?
«Mah... Certo qualcosa non va. Se per procedere nei processi occorre che la scippata torni a deporre contro la scippatrice dal Canada o dal Giappone la vedo dura...».
Quante delle vostre ospiti lavorano?
«Quasi tutte. Il lavoro è dignità. C’è una lavanderia e stireria che servono anche hotel di lusso come l’Hilton e il Danieli... Una sartoria che crea abiti per le madrine del Festival del Cinema... Un laboratorio di cosmesi ed erbe officinali... Un grande orto i cui prodotti vengono venduti anche all’esterno... A volte ho difficoltà inverse».
Cioè?
«Non trovo le donne da mettere a lavorare. Me ne chiedono ma sono già tutte o quasi tutte impegnate».
Anche a dipingere...
«È un progetto dell’associazione “Venezia Pesce di Pace” di Nadia De Lazzari per i 300 anni di Casanova: “Dipingiamo la Libertà a Venezia”. Coinvolge una quarantina di donne. A ciascuna sono stati dati pennelli, tele e colori regalati dalla Scuola Grande di San Teodoro, che poi ha ospitato le loro opere. Anzi, dei quadri han trovato subito dei compratori».
Mancano soli i merletti...
«Forse, tocchiamo ferro, arriveremo a un accordo anche su quelli con la scuola del merletto di Burano. Ci ho parlato... La scuola rilascia un attestato di “merlettaia di Burano”. Sarebbe molto spendibile per chi, poi, dovrà reinserirsi».
Non sarà facile, per tante...
«C’è una ragazza che mi sta molto a cuore. È qui da dodici anni “in misura di sicurezza”. Dico: dodici anni. Ha dentro un forte disagio. Spesso ce l’ha quando si sta avvicinando l’udienza in cui si deve rivalutare la sua pericolosità sociale. È spaventata dall’idea di uscire, di riprendere in mano la sua libertà... Non ha nessuno, è disorientata. E allora fa qualcosa per ritardare questa uscita...».
Ahi ahi...
«L’ho scritto anche sul Sole 24 Ore: serve un gioco di squadra che va fatto dentro e fuori le mura. Che non dovrebbe iniziare e finire in istituto. Perché anche la liberazione può diventare un “fine pena mai” per chi rientra in un contesto sociale che è stato escludente prima e può diventarlo ancora di più dopo. Bisogna conoscere la persona, le sue fragilità, i suoi problemi, le sue preoccupazioni. È un dovere di tutti, prima, durante e dopo la detenzione. Per farsene carico, è fondamentale mostrare un interesse umano e pratico che la persona sia in grado di percepire».
Insomma, lo Stato deve sentirsi responsabile anche del dopo.
«Sì. L’accoglienza in carcere deve essere confermata anche dopo: chi esce non si deve sentire “un vuoto a perdere”».
E questa ragazza...
«Abbiamo parlato molto. Molto. E mi ha mandato una lettera bellissima. Davvero bellissima».
Che ne ha fatto?
«L’ho messa in cornice. È solo mia. Segreta. Ma in cornice».