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 2025  novembre 27 Giovedì calendario

I mercenari delle nuove guerre sono ormai tutti “made in Africa”

Complesso, policromo e a tratti enigmatico: si presta a più letture l’identikit del combattente africano del XXI secolo, spesso transnazionale, osmotico con le reti criminali, affine al banditismo e innervato dalle reti di contrabbando, quasi sempre succedaneo alla povertà di alternative socio-economiche offerte da alcune istituzioni statali fragili.
Dirlo è apodittico ma olezza di petrolio magna pars dei conflitti civili africani, sa di logiche predatorie, di conquista di miniere imprescindibili per la quarta rivoluzione industriale, di ambizioni poliedriche non dissimili da quelle che animarono le potenze europee alla conferenza di Berlino di un 1800 volgente al termine. Petrolio e miniere che significano per i combattenti locali denaro, potere e ricchezze, chiave della logistica di armi e munizioni, in una spirale autorigenerantesi. Lo si è visto in Libia, a nord come nel Fezzan, bramato pure da tubu e tebu, non meno che in Sudan e nel Kivu congolese. Con un assioma impostosi anche nel Continente nero da inizio decennio: è cresciuta la complessità tattica dello spazio di manovra e, eccetto per i gruppi salafiti, c’è meno ideologizzazione e più brama di guadagno. Sopratutto è aumentata la letalità: nell’ultimo decennio le vittime africane del terrorismo superano le 150mila persone e si stanno distinguendo per eccidi pure i regolari e i loro alleati, come visto nel Sahel, riserva di caccia dell’Africacorps russo. È qui che si concentra oggi un quinto dei morti continentali di matrice jihadista. Si sono adeguati alla tecno-evoluzione i combattenti africani: occupano spazi informativi digitalizzati, affiancano armi di generazioni precedenti, come gli Ak-47 diuturni, a tecnologie duali di ultimo grido; convertono droni civili in strumenti di guerra e gliene affiancano di militari ab origine, sottraendo quote tattiche di dominio aereo alle aviazioni regolari.
Innalzano il livello dello scontro, filmano in diretta e ritrasmettono, acquisiscono dall’aria bersagli e informazioni preziose, guidano azioni e artiglierie. Alcuni miliziani dell’Iswap filo-Daesh cominciano a mostrare capacità inedite di combattimento notturno; si sono fatti tecnoguerriglie che puntano ad ampliare le zone d’influenza eslege, difenderle e interdirle allo Stato.
Sfuggono oggi in Africa al controllo centrale superfici pari a tre penisole italiane, nella triplice frontiera maliano, nigerina e burkinabé, nel Cabo Delgado mozambicano, in Somalia, nella regione del Lago Ciad, nel Borno e nel settentrione nigeriano che si incunea in Camerun, moltiplicando fenomeni criminogeni attraverso confini porosi e spesso artificiali, scarsamente presidiati.
Confini che calpestano il lascito del regno tardocinquecentesco di Idriss Alaoma, il cui impero abbracciava il Borno e il Camerun settentrionale, passando per il Ciad e il sudest nigerino. Zone di frontiera, crocevia storici di popolazioni affini e di scambi commerciali intensi. Rivelano capacità i guerriglieri e le insorgenze africane odierne, di tassazione, di giurisdizione, di protezione di comunità emarginate, di reclutamento, di opportunismo e di connivenze. Allarmano il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guteress che, intervenendo al Consiglio di Sicurezza, la settimana scorsa, ha ammonito: «L’espansione del jihadismo africano e la sua interrelazione sinergica crescente con i gruppi criminali potrebbe creare insidie globali». Ma l’Africa è anche specchio e teatro della rivalità strategica fra Russia e occidente europeo, fra Usa e Cina e fra medie potenze in ascesa, dall’agenda multiforme e da interessi nazionali proiettivi, specie in Sudan, in Congo, nel Sahel e in Libia, rivelatesi guerre civili meta nazionali, di scontri interetnici, di gruppi armati jihadisti, oltre che di lotte fra nomadi e sedentari, di mercenari cosmopoliti, di unità di reclutamento locale, di disertori di eserciti regolari, di milizie di autodifesa e di forze speciali straniere, longa manus di governi che agiscono per intermediari, finanziano e armano i conflitti per procura del secondo millennio. Iran, Russia ed Emirati Arabi Uniti alimentano le opposte fazioni sudanesi, che combattono anche con droni turchi. Parte di quelle emiratine arriva via Ciad; e qatarini ed emiratini sono stati in prima linea anche in Libia, insieme a russi e turchi. Oggi il deserto del Mali e le vie carovaniere dell’Africa occidentale e centrale sono mega-poli di traffici, di armi in primis, un quinto delle quali di preda bellica. Via Nigeria e golfo di Guinea risalgono verso l’Europa pure le rotte della narcocriminalità dei cartelli latinoamericani.