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 2025  novembre 27 Giovedì calendario

La “fabbrica dei rapimenti” in Nigeria dal jihadismo alla criminalità mafiosa

L’attuale scenario nigeriano è caratterizzato da una geografia della violenza altamente articolata e stratificata, un insieme eterogeneo di dinamiche che sfugge a letture riduttive e a narrazioni mediatiche di taglio sensazionalistico. Tra le manifestazioni più significative di questa complessità si colloca il fenomeno dei rapimenti, evolutosi negli ultimi due decenni in una forma di economia parallela e, simultaneamente, in un dispositivo simbolico e operativo del potere. Analizzare le trasfor-mazioni in atto nel principale Paese dell’Africa occidentale significa riconoscere l’insufficienza di un approccio interpretativo circoscritto al jihadismo: il sequestro di persona costituisce oggi, infatti, uno strumento adottato da una pluralità di soggetti, collocati entro cornici sociali, politiche e culturali tra loro interconnesse.
La narrazione mediatica internazionale tende sovente ad associare i rapimenti alle operazioni delle milizie estremiste islamiste attive nel Nordest del Paese, a partire dalla sigla tristemente nota di Boko Haram e dalle sue diramazioni. Indubbiamente, queste formazioni armate utilizzano i sequestri come arma di terrore, come fonte di finanziamento e come strumento di propaganda. Le loro incursioni nei villaggi del Borno, dello Yobe e dell’Adamawa, così come gli attacchi contro le scuole, hanno inciso in modo indelebile sulla memoria collettiva, alimentando un clima diffuso di paura e sfiducia nelle istituzioni. Il rapimento delle studentesse di Chibok nel 2014 – che fece irrompere sulla scena globale una tragedia già profondamente radicata – rappresenta solo uno dei casi più emblematici. L’aver colpito e in parte colpire ancora (vista la più ridotta portata del movimento) le comunità cristiane risponde a logiche parallele alla “tradizionale” persecuzione, ma non più principale obiettivo dell’azione.
Limitarsi a questa prospettiva di deprecabile azione anti-cristiana (molti più limitata nell’ultimo quinquennio ma non per questo meno grave come dimostrano anche i sequestri di numerosi sacerdoti e pastori), tuttavia, significherebbe ignorare una parte sostanziale del quadro. In molte regioni della Nigeria i sequestri sono oggi perpetrati anche – e talvolta soprattutto – da bande armate prive di un’ideologia religiosa, motivate invece da un intreccio di marginalizzazione sociale, povertà strutturale, corruzione sistemica e competizioni per il controllo delle risorse. Attive principalmente nel Nordovest, negli Stati di Kaduna, Zamfara, Katsina, Sokoto e Niger, queste organizzazioni non perseguono alcuna ambizione teocratica: costruiscono piuttosto un’economia predatoria alimentata dal vuoto di sicurezza e dalla fragilità del controllo territoriale. Il terreno su cui tali dinamiche prosperano è quello di una crisi socio-economica di lungo corso, segnata da livelli elevatissimi di disoccupazione giovanile, da un’amministrazione pubblica inefficiente e da un uso distorto delle immense ricchezze nazionali – petrolio, gas, carbone, zinco, terre fertili – concentrate nelle mani di ristrette élite. In questo contesto, il rapimento si configura come un vero mercato: agricoltori, commercianti, viaggiatori e studenti diventano merce di scambio, sequestrati per ottenere riscatti che alimentano un circolo vizioso di violenza e impunità. La linea di confine tra criminalità organizzata e militanza armata è inoltre spesso sfumata: alleanze tattiche, collaborazioni temporanee e scambi di armi e informazioni rendono i confini estremamente porosi. Un elemento particolarmente rilevante riguarda la dimensione antropologica e storica dei conflitti in Nigeria. Il Paese, popolato da circa 230 milioni di persone, è un arcipelago etnico e culturale in cui la competizione per la terra e per le risorse agricole si sovrappone alle tensioni tra comunità pastorali e agrarie – spesso semplificate come uno scontro tra “Fulani” e “non-Fulani”, quando la realtà è in verità molto più complessa. In molte di queste zone, la proliferazione delle armi leggere e l’indebolimento delle tradizionali strutture di mediazione hanno favorito la trasformazione di contrasti locali in violenza sistemica. Alla radice dei rapimenti si trova dunque un sistema di insicurezza multiforme, che coinvolge diversi attori. La risposta del governo – oscillante tra repressione militare e tentativi di negoziazione – risulta inefficace. E solo ieri, dopo più di 350 rapimenti in dieci giorni, il presidente ha dichiarato un’emergenza nazionale di «sicurezza» sul fenomeno.
La corruzione diffusa erode la fiducia dei cittadini e delegittima ogni intervento istituzionale. Le comunità locali, lasciate in larga parte a sé stesse, elaborano forme autonome di autodifesa, dando vita a milizie civili che, pur nate con finalità protettive, rischiano di aggiungere ulteriori livelli di violenza a uno scenario già estremamente complesso. A pagare il prezzo più alto sono le persone comuni: famiglie distrutte, bambini segnati dal trauma, comunità costrette a lasciare le proprie case. Un Paese giovane, vitale e pieno di energie si ritrova a convivere con la paura del viaggio, della scuola, della quotidianità che altrove si dà per scontata. Eppure, nonostante la gravità del fenomeno, la Nigeria non può essere definita unicamente attraverso le sue ferite. È anche un luogo di straordinaria resilienza, animato da reti comunitarie, organizzazioni civili, autorità religiose e figure tradizionali che promuovono dialogo, riconciliazione e protezione dei più vulnerabili. Cristiani per primi, soprattutto negli Stati del centro e del sud dove continuano gli attacchi ai sacerdoti, nella quasi totalità dei casi a scopo di estorsione. Raccontare in modo autentico il fenomeno dei rapimenti in Nigeria significa dunque rifiutare il binarismo – jihadisti da una parte, popolazione inerme dall’altra – e riconoscere la coesistenza di molteplici Nigeria: quella delle metropoli globalizzate e dinamiche, quella delle campagne marginalizzate, quella dei giovani in cerca di futuro e quella di chi, privo di alternative, viene risucchiato dal mercato della violenza. Solo assumendo questa complessità è possibile cogliere il dramma autentico di un Paese che chiede di essere ascoltato e compreso prima di venire travolto da giudizi e reazioni.