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 2025  novembre 27 Giovedì calendario

Il paradosso dello sport: pesa l’abuso emotivo

Un dato che colpisce più di altri: quasi un’atleta su due dichiara di aver subito violenza psicologica, il 44% del campione. Nella maggior parte dei casi, per la precisione l’81%, la violenza arriva proprio da chi dovrebbe sostenere, proteggere e accompagnare: dallo staff tecnico. Un altro 15% proviene invece da ingerenze delle figure dirigenziali.
È la nuova ricerca “Donne nello sport”, realizzata grazie al Progetto Simo di Soroptimist International d’Italia e curata dall’olimpionica Antonella Bellutti, a portare alla luce ciò che tante atlete hanno vissuto in silenzio. È la prima fotografia organica, basata su 876 questionari, che misura con precisione il gender gap e la qualità dell’esperienza sportiva femminile nel nostro Paese.
Sono numeri che raccontano un paradosso: nello sport, luogo ideale di emancipazione, proprio le donne vivono dinamiche di abuso che restano sommerse, normalizzate o taciute. Bellutti non usa giri di parole: «La violenza psicologica è la forma più diffusa e meno riconosciuta. Non lascia lividi, ma condiziona intere carriere, autostima, salute mentale. Questi numeri mostrano che non è un problema isolato, ma strutturale». E i dati lo confermano.
Oltre alla violenza psicologica emerge un clima diffuso di discriminazione: il 29% delle atlete dichiara di averla subita e tra queste il 77% è stata anche vittima di violenza psicologica. «La discriminazione – precisa Bellutti – agisce come un moltiplicatore di fragilità. Quando un’atleta non si sente tutelata o percepisce ingiustizie o disparità diventa più vulnerabile ad abusi e pressioni». La ricerca mostra poi quanto lo sport femminile sia lontano da un contesto equo tra difficoltà nel conciliare studio e allenamenti (48%), l’assenza quasi totale di allenatrici nei ruoli chiave (solo il 23% dei tecnici è donna), a contratti spesso inesistenti (il 77% delle atlete non ha un accordo formale con il proprio club). Un mondo che pare fondarsi su sacrifici personali senza però restituire tutele adeguate.
E infine c’è il corpo, giudicato, osservato e spesso mortificato: il 38% delle atlete racconta di essere stata messa a disagio per il proprio aspetto fisico. Accade nelle palestre, nelle piscine, negli spogliatoi e durante gli allenamenti. quasi sempre da parte di adulti con ruoli di potere. Bellutti evidenzia un aspetto cruciale: «Dobbiamo formare tecnici e dirigenti non solo sul piano sportivo, ma sulle competenze relazionali, sull’etica, sulla leadership trasformazionale. Il loro ruolo è prosociale, non autoritario. Servono strumenti, cultura e responsabilità». L’introduzione obbligatoria, dal 2025, della figura del Safeguarding Officer è stata un passo importante, ma non sufficiente visto che le atlete continuano a percepirla come non affidabile o inefficace.
La prevenzione, ricorda Bellutti, deve essere la priorità: «Lo sport sicuro non si costruisce punendo dopo, ma educando prima». Il report Soroptimist diventa una chiamata all’azione: non basta che le atlete conquistino medaglie se dietro le vittorie resta l’ombra di un sistema che ancora fatica a riconoscerle pienamente. Non a caso il comando generale dell’Arma dei carabinieri e la presidente del Soroptimist international d’Italia Adriana Macchi hanno sottoscritto il nuovo protocollo d’intesa 2025, che rinnova e rafforza la collaborazione avviata nel 2015 con il progetto “Una stanza tutta per sé”, dedicato all’accoglienza protetta delle donne vittime di violenza e delle persone vulnerabili. La conclusione di Bellutti è un invito e insieme una promessa: «Questo studio non vuole soltanto denunciare, ma indicare una strada. Lo sport può essere davvero un luogo di emancipazione, ma solo se rimuoviamo ostacoli, stereotipi e violenze. È tempo di costruire ambienti in cui ogni atleta, donna o ragazza, possa crescere con dignità e senza paura».
Forse è da qui che deve partire la rivoluzione dello sport italiano: dall’ascolto delle donne e dalla forza dei numeri che non si devono più ignorare.