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 2025  novembre 27 Giovedì calendario

Mani cinesi sull’energia. I timori del governo: "Poteri da limitare"

La notizia pochi giorni fa non ha fatto granché rumore: Snam, il colosso del trasporto del gas italiano, ha rinunciato all’acquisto del 25 per cento della cugina tedesca Open Grid Europe, dodicimila chilometri di rete. La trattativa andata avanti per mesi valeva quasi un miliardo di euro. Ad aprile i vertici di Snam erano ottimisti, nel frattempo alla Cancelleria di Berlino cambia tutto: fuori Olaf Scholz, dentro Friedrich Merz. A settembre si intuisce che la partita si è complicata: il nuovo amministratore delegato Agostino Scornajenchi racconta di essere rimasto stupito per la mole di documenti e autorizzazioni chieste dalle autorità tedesche. «Non la inseguiremo a tutti i costi», disse il manager. Stava preparando il terreno a quanto accadrà il 14 novembre, quando una nota di Snam informa della rinuncia all’acquisizione. Il vero perché è inconfessabile: Merz è contrario per via della presenza in Snam di un azionista cinese. E che azionista.
Per comprendere i contorni di una vicenda arrivata fino al tavolo di Giorgia Meloni occorre riavvolgere il nastro di oltre dieci anni. È il 31 luglio del 2014. Nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi l’allora premier Matteo Renzi, il ministro del Tesoro Piercarlo Padoan e i vertici di Cassa depositi e prestiti firmano con State Grid of China l’accordo per l’acquisto da parte di Pechino del 35 per cento delle quote di Cdp Reti, la holding di Cassa che controlla le tre principali società di trasporto dell’energia italiane: il 31 per cento di Snam, il 29 di Terna, il 26 di Italgas. Con un esborso relativamente basso – 2,1 miliardi – i cinesi diventano soci rilevanti di una delle società pubbliche strategiche del Paese. Da allora il colosso dell’energia può contare sulla presenza di un consigliere di amministrazione in ciascuna delle tre società. Oggi è Qinjing Shen, un brillante ingegnere proveniente da una delle controllate.
In questi dieci anni i cinesi sono stati una presenza silenziosa e – così raccontano le fonti interpellate a Cassa depositi e prestiti – correttissime. «Non hanno mai influito né cercato di influire sulle scelte», spiega un alto funzionario sotto condizione di anonimato. D’altra parte il valore della loro partecipazione si è moltiplicato: l’investimento di allora oggi vale più del doppio, oltre cinque miliardi di euro e solo l’anno scorso ha garantito a State Grid un dividendo da 140 milioni. Per il governo italiano quella presenza nel frattempo si è fatta però molto ingombrante. L’episodio più significativo risale al 2016, quando Terna fallisce l’acquisto del 24 per cento della rete elettrica greca Ipto a causa di un’offerta molto più generosa di quella depositata da parte della stessa State Grid. Un ex top manager di Cassa racconta: «Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini (allora presidente e amministratore delegato di Cdp, ndr) si mossero per ragioni puramente finanziarie: nessuno meglio dei cinesi avrebbero potuto sborsare una cifra così alta per aiutarci a ricapitalizzare la holding. Oggi però abbiamo chiaro che quella operazione ebbe un costo politico piuttosto alto: la presenza del governo cinese nella stanza dei bottoni delle reti strategiche».
Quando il governo Renzi firmò quell’accordo Berlino era un solido alleato di Pechino e probabilmente nessuno avrebbe fermato l’operazione di Snam sulla tedesca Open Grid. Oggi il mondo è cambiato e di quella tensione multilaterale è rimasto ben poco. A Palazzo Chigi la mancata acquisizione in Germania non è passata inosservata e ad alcuni ricorda il caso di Pirelli, la multinazionale (ex) italiana tuttora controllata da mani cinesi e per la quale è stato utilizzato lo strumento del Golden power. Non è ancora chiaro se questa volta si troverà un accordo fra gentiluomini, o se il governo dovrà fare uso di quei poteri, di certo – come spiega un’autorevole fonte di governo – «occorrerà prendere precauzioni per limitare il loro potere di veto». In ambienti finanziari c’è chi ipotizza una fusione fra Snam e Terna per diluire la presenza azionaria dei cinesi. Ci provò una prima volta senza successo l’allora premier Mario Draghi, ma il tentativo finì nel nulla. Allora Cdp riuscì solo a ridurre il peso (dal 40 al 12 per cento) di Shanghai Electric in Ansaldo Energia. E d’altra parte senza un accordo fra governi si tratta di palliativi: State Grid è azionista della holding a monte della catena azionaria, e può contare su un blindatissimo accordo triennale (scade fra un anno) che gli consente di dormire fra due guanciali. «Non abbiamo piani di rinuncia al nostro investimento», spiegava pochi giorni fa una fonte dei cinesi a Reuters. Visti i risultati, difficile dargli torto.