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 2025  novembre 27 Giovedì calendario

Quando Washington inventò il Giorno del Ringraziamento: così nacque il Thanksgiving

Il 26 novembre 1789, un giovedì, George Washington si svegliò di buon’ora. Assistito dai suoi valets de chambre – William “Billy” Lee e il giovane Christopher Sheels, persone che lui stesso teneva in schiavitù – si incipriò i capelli, indossò il suo abito preferito di velluto nero, si legò la cravatta bianca e s’infilò i guanti gialli.
Quando fu pronto, uscì per percorrere la breve distanza che separava la residenza presidenziale, allora al n. 3 di Cherry Street a New York, dalla St. Paul’s Chapel, che ancora oggi si trova al 209 di Broadway. New York era a quel tempo la capitale provvisoria degli Stati Uniti: il nuovo governo federale si era appena insediato e non aveva ancora una sede stabile.
Washington aveva un obiettivo importante: celebrare il Giorno del Ringraziamento. Aveva riflettuto con attenzione su quella ricorrenza, la prima del suo mandato. Il 3 ottobre 1789, su raccomandazione congiunta di Camera e Senato, aveva emanato una proclamazione in cui invitava il popolo degli Stati Uniti a dedicare “un giorno di pubblico ringraziamento e preghiera”. Per Washington, quel Thanksgiving del 1789 rappresentava un’occasione cruciale per esortare i cittadini del nuovo Paese a restare uniti, nonostante le forze centrifughe che, a suo avviso, avrebbero potuto facilmente disgregarlo.
Non era il primo Thanksgiving celebrato dagli americani: il primo risale all’autunno del 1621, quando i coloni di Plymouth organizzarono un banchetto per ringraziare Dio del raccolto e invitarono membri della vicina tribù Wampanoag. Non era neppure il primo Ringraziamento a carattere nazionale: quello si tenne il 18 dicembre 1777, su iniziativa del generale Washington, durante la Guerra d’Indipendenza. E la ricorrenza non era ancora diventata una festività federale da celebrare ogni ultimo giovedì di novembre: questo sarebbe accaduto solo con la proclamazione di Abraham Lincoln nel 1863, in piena guerra civile.
Il 26 novembre 1789 il tempo era pessimo, e la cosa certo non incoraggiò i newyorchesi ad unirsi alla celebrazione. “Sono andato alla St. Paul’s Chapel”, annotò Washington nel suo diario, “sebbene vi fosse un tempo inclemente e tempestoso”. Ad attenderlo trovò “pochissime persone”. Il presidente però si era preparato. Aveva anche donato una somma consistente di tasca propria per acquistare birra e cibo per i debitori rinchiusi nel carcere cittadino di New York. Quel gesto fu considerato magnanimo e perfettamente in linea con lo spirito della festa. Una settimana dopo, in un annuncio apparso sul New York Journal del 3 dicembre, quegli stessi detenuti espressero i loro “grati ringraziamenti” al presidente “per la sua graditissima donazione di giovedì scorso”.
Dal punto di vista numerico, quel primo Thanksgiving presidenziale non fu un grande successo: la chiesa era quasi vuota. Eppure quello fu un passaggio importante nel più ampio progetto politico di George Washington: portare la presidenza a contatto diretto con I cittadini. Washington aspirava a un populismo virtuoso. Non un populismo fondato sull’istigazione delle masse, bensì sulla condivisione dei loro rituali, del loro linguaggio religioso, della loro vita comunitaria. E agiva, nelle sue intenzioni, nell’interesse collettivo.
Il Thanksgiving del 1789 era religioso, ma anche più che religioso. Nella sua proclamazione, Washington aveva impiegato un linguaggio devozionale esplicito: il giorno doveva “essere dedicato dal Popolo di questi Stati al servizio di quel grande e glorioso Essere, benevolo Autore di tutto il bene che è stato, è e sarà”. La preoccupazione principale, però, rimaneva politica. La nazione era appena nata e Washington temeva che potesse crollare. Le divisioni interne e gli interessi particolari rischiavano di essere fatali. Per questo voleva trasformare la ricorrenza in una celebrazione civica nella quale “tutti potessero unirsi”.
Washington sapeva bene che gli Stati Uniti erano nati tanto dalla schiavitù, dalla conquista e dalla violenza, quanto da principi sacri. La coesione civica richiedeva il riconoscimento di queste ombre. Così, nella proclamazione, chiese a Dio “di perdonare le nostre trasgressioni”. E lui stesso era interprete consapevole di queste “trasgressioni”: anche lui possedeva schiavi, perseguiva infallibilmente i fuggitivi, ed era stato responsabile della distruzione di interi villaggi nativi-americani. Era stato un comandante duro, che non esitava a infliggere punizioni corporali ai suoi soldati. Non si considerava un santo da imitare ciecamente, e questa consapevolezza lo rendeva umile nell’esercizio delle sue funzioni.
Al tempo stesso, capiva il potere simbolico della sua posizione e cercava di sfruttarlo a beneficio della nazione. Senza social media – niente X o Truth, niente strumenti di comunicazione immediata – Washington doveva mostrarsi di persona, sotto la pioggia o con il sole. Doveva presenziare a balli, spettacoli teatrali, cene, ricevimenti pubblici e naturalmente alle funzioni religiose. Ogni occasione, ogni Thanksgiving contava. Durante i suoi spostamenti, incontrava persone diversissime, comprese quelle considerate cittadini di seconda classe o non cittadini affatto. Donne, operaie tessili del New England, leader ebrei di Newport, tanti schiavi nel Sud e fedeli ovunque. Tutti, in modi diversi, partecipavano alla costruzione di un nuovo teatro politico. Forse era solo una messa in scena, ma quelle persone – proprio come i prigionieri del carcere di New York – ringraziavano il presidente perché sentivano di avere una voce in una cultura politica più ampia.
Oggi il Thanksgiving è soprattutto una festa familiare e laica, centrata su rituali domestici – il pranzo, il tacchino, il ritorno a casa di chi studia e lavora fuori – e rappresenta per molti americani il vero cuore dell’anno civile. Washington volle che il suo messaggio iniziale – non un semplice messaggio, ma una “proclamazione” – risuonasse chiaro e forte: che Dio possa “rendere il nostro governo nazionale una benedizione per tutto il popolo, e che possa rimanere un governo saggio, fatto di leggi giuste e costituzionali, e che siano eseguite e osservate con fedeltà e prudenza”.