la Repubblica, 27 novembre 2025
Il cavallo di Canova torna in pista, restaurata la scultura per Napoleone
Infine è riemerso, da una nuvola di polvere di gesso che per nove mesi ha avvolto lui e un gruppo di restauratori, ora esausti. Ritto sulle tre zampe, la quarta alzata nel passo che sta per fare. Gli occhi cavi, un vezzoso ciuffo tra le orecchie, la bocca spalancata in un nitrito muto. Non ha mai avuto un nome, sempre e solo conosciuto come il Cavallo colossale di Antonio Canova, e se volete andare a vederlo, la sua nuova vita rampante è visibile da oggi alle Gallerie d’Italia di Milano, con un’apertura straordinaria e gratuita per la città.
A lui l’onore di aprire Eterno e visione. Roma e Milano capitali del neoclassicismo (fino al 6 aprile 2026), rassegna sotto il segno di Napoleone Bonaparte, di cui è il pezzo più maestoso, non fosse che per le misure. Alto 4 metri e 45, e lungo cinque, per forza di cose collocato nel Salone della ex Banca Commerciale Italiana di piazza Scala (ai lati gli sportelli antichi, intatti come negli anni Venti, e il caveau). Difficile infatti trovare una collocazione adeguata per un’opera del genere, ideata tra il 1806 e il 1810 da Canova per un monumento equestre a Napoleone, mai realizzato però. Un capolavoro ritrovato, ormai lo si dava per perso, e poi per irrecuperabile. «Nella testa dello scultore, doveva essere più grande del Marco Aurelio, ma la storia avanzava…», spiega Giovanni Morale, vicedirettore delle Gallerie d’Italia. E quando Canova riprese il progetto, l’imperatore era già sconfitto a Waterloo, già prigioniero degli inglesi a Sant’Elena, dove morirà nel 1821. «Era ancora un mito», ma il suo Cavallo veniva già “riciclato” per un altro monumento a Ferdinando I, da collocarsi a Napoli in piazza del Plebiscito. Anche lì, non se ne fece nulla. Canova moriva nel 1822, l’ultima opera restava incompiuta, pronta per la fusione in bronzo ma senza committente, e ormai destinata a una brutta fine. Abbandonata nello studio romano di via delle Colonnette, vicino a piazza del Popolo, che – lui vivo – era una delle tappe obbligate del Grand Tour degli stranieri colti, e di principi, dame e intellettuali, Stendhal tra i primi.
Il fratellastro di Canova, Giambattista Sartori sgomberò l’atelier nel ’29, e fece trasferire tutto a Possagno, cavallo di gesso compreso. Qui bisogna chiedere a Giordano Passarella, che del restauro e dei vari traslochi del super cavallo sa tutto, avendoci messo le mani per primo. «Canova aveva previsto che fosse smontabile, e quindi venne portato a pezzi via mare, da Civitavecchia, fino a Venezia, e da qui su carri, o via fiume, fino a Bassano del Grappa. Forse si rovinò un po’, ma comunque venne rimontato, con vari rinforzi interni che ne ispessirono le pareti e che abbiamo rimosso. Il peggio però succede dopo».
Sopravvive in piedi ai bombardamenti del 1945, incredibilmente, data la fragilità. Ma nel 1969, per alcuni lavori di ampliamento del museo di Bassano, «lo fecero a pezzi, con la sega», povera bestia, «e lo stiparono in un magazzino. Così lo abbiamo trovato, in 203 pezzi malandati». Possibile che nessuno allora si sia accorto che andava così distrutto un capolavoro? Comunque sia, molti studiosi lo ritenevano perduto e le spoglie sono state riesumate all’inizio dell’anno, quando «abbiamo vinto il bando per il restauro. È stata una bella impresa, e ci siamo riusciti solo grazie a un ingegnere, Stefano Secchi, che ha studiato una nuova struttura interna per farlo stare in piedi, e al carpentiere Grappiglia che l’ha realizzata».
A fine mostra tornerà al museo di Bassano. Con il suo nuovo scheletro nascosto, in acciaio inossidabile, e i quattro pali che lo tengono su. «È un’opera gigante e fragilissima. Ma per Canova il gesso aveva una sua nobiltà, era un materiale povero ma prezioso», dice Morale, e intanto mostra la Testa Carafa, altra scultura gioiello esposta, fusa da Donatello nel 1456, che «sicuramente Canova conosceva». Ma anche Donatello non riuscì a portare a termine l’intero cavallo. Piccola, rispetto all’altro purosangue che invece svetta in tutta la sua grazia equina, e con la stessa patina simil bronzo voluta dal suo creatore, Passarella spiega che «Canova gli diede prima una passata di turapori, poi uno strato di verde chiaro, infine un verde a tono, a ricreare l’effetto del metallo. Usò una tempera di terre, colla animale, forse anche rosso d’uovo».
Un restauro così impegnativo è stato promosso dal Comune e dai Musei Civici di Bassano del Grappa, con la Soprintendenza, da Intesa Sanpaolo (main partner, progetto “Restituzioni”) e da Venice in Peril Fund. «Una sinergia preziosa tra il patrimonio artistico, il pubblico e le realtà private illuminate che si dedicano alla salvaguardia delle nostre ricchezze artistiche», commentava Michele Coppola, direttore generale di gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Aggiungiamo che il Cavallo poggia su un nuovo basamento antisismico, così come è stato fatto per i Bronzi di Riace. E che nessuno lo prenderà più a mazzate, mai più.