la Repubblica, 27 novembre 2025
Piccola e poco tecnologica: perché l’industria italiana regge ma non fa il salto
Come sta – davvero – l’industria italiana? E soprattutto: riuscirà a restare competitiva nell’era delle grandi transizioni, della frammentazione geopolitica e dell’Intelligenza artificiale? La questione è decisiva, ma molto difficile da inquadrare. Ed è quello che, con grande merito e patrimonio di dati, tenta di fare un nuovo rapporto del Centro studi di Confindustria sulla trasformazione vissuta dalla nostra manifattura negli ultimi anni. Ne esce una risposta complessa, con due corni principali. Il primo, il più positivo, è che una significativa evoluzione c’è stata, una sorta di selezione naturale che nel complesso ha reso il tessuto industriale più resiliente e (un po’) più produttivo, permettendogli di difendere la sua quota globale. Il secondo, molto meno incoraggiante, che una serie di limiti strutturali – ridotta dimensione delle imprese, concentrazione in settori a bassa tecnologia, scarsa propensione ad investire in ricerca e beni immateriali – non permettono di ridurre il divario di competitività con altri Paesi europei e con i campioni globali, e in prospettiva minacciano di farlo crescere ancora. Anche perché quei limiti, e gli eventuali correttivi, non sembrano essere al centro del dibattito.
I dati più generali dicono che l’industria italiana resta un pilastro dell’economia nazionale, seconda in Europa e ottava al mondo per dimensioni, con il 2,1% del valore aggiunto manifatturiero globale. Raccontano di una sostanziale tenuta, addirittura di una crescita nel caso dell’export, non banale nell’era in cui è emersa la superpotenza produttiva cinese. È l’effetto di una manifattura molto diversificata – e quindi in grado di resistere meglio a shock settoriali –, molto votata alle esportazioni (oltre il 48% della produzione) e nell’ultimo decennio, quello successivo alla grande crisi, rafforzatasi nella competitività e nel patrimonio. Le micro imprese, che in tutte le economie sono le meno produttive, sono diminuite del 12%, mentre la dimensione media delle più grandi, che in generale sono le più efficienti, è aumentata. Dopo vent’anni in cui il gap di produttività con gli altri Paesi europei non ha fatto che allargarsi, tra il 2015 e il 2019 ha mostrato segnali di convergenza.
Il problema che emerge dalla radiografia di Confindustria però è che questa evoluzione è lenta e limitata. Dal punto di vista delle dimensioni delle imprese, quella media resta molto bassa: nel 2023 solo il 42% del valore aggiunto è stato generato dalle grandi aziende (e il 30% da piccole e micro), contro il 74% della Francia e il 75% della Germania. Dal punto di vista settoriale, il 60% del sistema resta concentrato in comparti a media e bassa intensità tecnologica (meccanica, metalli, alimentare, tessile), mentre in Francia è il 50% e in Germania il 40%. La crescita di produttività degli ultimi anni si spiega con variazioni positive interne ai settori, con aumento del divario tra grandi (più produttivi dei pari dimensione europei) e piccoli, ma non da una redistribuzione delle risorse verso settori più avanzati.
Anche le attitudini di investimento riflettono questa tassonomia produttiva tradizionale: in Italia la propensione all’investimento è superiore al resto d’Europa, ma si concentra su beni materiali, dai macchinari in giù, mentre sui beni intangibili – ricerca, software, brevetti, capitale manageriale, i nuovi traini dell’innovazione globale – restiamo decisamente dietro a Francia e Germania. Negli ultimi due anni poi, in particolare nella manifattura alle prese con una contrazione del prodotto, si assiste a un fenomeno di “occupazione senza crescita” che ha fatto di nuovo calare in modo “meccanico” la produttività.
Il bilancio degli ultimi trent’anni è impietoso: la produttività per ora lavorata è aumentata solo del 26%, un terzo del guadagno di Francia e Germania, meno della metà rispetto alla Spagna. Per metterla su un percorso duraturo di crescita – scrive il centro studi confindustriale – occorre agire su più leve: “Sostenere l’innovazione delle imprese alla frontiera, promuovere la diffusione delle migliore pratiche gestionali e tecnologiche tra le realtà meno produttive, favorendone la crescita dimensionale, e agevolare un più efficace spostamento delle risorse verso imprese e settori a maggiore potenziale”.
Sono priorità poco o nulla riflesse nelle misure della manovra, a cominciare dai “nuovi” incentivi di Industria 5.0 sempre sbilanciati sulla componente materiale (con un “traino” limitato per quella immateriale). Nella retorica di un governo che pare impegnato a proteggere vecchi settori in crisi strutturale, più che a promuovere la loro transizione e quella dell’intero tessuto produttivo verso la frontiera tecnologica. Ma sembrano in secondo piano anche nelle battaglie degli stessi industriali, molto più concentrati sul ridurre il costo dell’energia e il peso delle regole europee. Condizioni esterne necessarie, ma non sufficienti per il salto che serve all’Italia.