Corriere della Sera, 27 novembre 2025
Zibì Boniek è uno dei protagonisti del documentario di Angelo Bozzolini sul decennio d’oro della Juve, dal 1975 al 1985, in anteprima al Festival di Torino
Zibì Boniek è uno dei protagonisti del documentario di Angelo Bozzolini sul decennio d’oro della Juve, dal 1975 al 1985, in anteprima al Festival di Torino. Lo rivediamo nelle sue galoppate irresistibili, sul prato che sembrava prateria.
Ha nostalgia di quel calcio?
«Il calcio è cambiato come tutto il resto, la tecnologia, il modo di essere. Con i social media ognuno si crea il proprio mondo. Tutto passa più velocemente. Se deve dire il film della sua vita, non le verrà in mente uno degli ultimi dieci anni. Nel calcio c’è gente che riesce a elencare gli undici titolari di una squadra del passato: lo chieda a un tifoso di oggi. Non lo sa».
Ma ha nostalgia o no?
«Ho 69 anni anche se me ne sento 45, ho visto il documentario e non posso più riabbracciare Paolo Rossi. Una volta nello spogliatoio si parlava un’unica lingua, quella italiana. E c’era più amicizia tra i giocatori, perché c’era meno rivalità: si era in 11 titolari, 4 riserve e tre della Primavera».
Come fu il suo arrivo a Torino?
«Venivo dalla Polonia dove ero già un calciatore affermato, ma la Juve era una delle più forti squadre del mondo. Ricordo una nostra partita in Polonia, contro il Lechia Danzica. Lech Walesa sugli spalti, lo stadio gridava libertà, dagli altoparlanti misero Felicità di Al Bano per calmare gli animi».
C’era il regime filocomunista.
«Noi polacchi non abbiamo mai accettato i russi. Non ho vissuto né povertà né ricchezza, papà elettricista, mamma sarta per una società militare».
Lei è presidente della Federazione di calcio polacca.
«Non lo sono più, dopo due mandati devi andare via. Lei sta parlando con un pensionato pieno di nipoti che si occupa di diritti tv, pubblicitari, marketing. Il calcio lo seguo, vedo tante partite».
Dicono che lei sia contrario alla Var.
«La Polonia fu il primo paese ad adottarla, ma non ne sono entusiasta. Non puoi rinunciare a quello che gli occhi di un arbitro possono vedere. Non cessano le polemiche, oggi sono diverse, si litiga sui centimetri».
In Italia c’era il campionato più bello del mondo. E poi?
«Una volta era una religione, tutti in campo la domenica alle 3 del pomeriggio, gli stadi pieni. Nelle infrastrutture non siete andati avanti come altrove. In Polonia noi giocavamo su campi di patate».
La Juve ha lo stadio nuovo ma si è «normalizzata».
«Era piena di campioni veri che hanno fatto la storia del calcio, Vialli, Baggio. Ora vedo buoni giocatori. La nostra Juve era diversa, Boniperti chiamava mia moglie: tutto bene, signora? Dica a suo marito che deve tagliarsi i capelli. Oggi è come le altre squadre. Una volta qualsiasi società che voleva vendere un giocatore chiamava la Juve. Quando vinse uno scudetto, Andrea Agnelli scese in campo e parlò ai tifosi davanti a tre microfoni, l’Avvocato si sarà rigirato nella tomba. Non è un gesto sbagliato in sé, solo che lo fanno tutti. Ma non voglio parlare male di nessuno».
Lei quando smise andò a vivere a Roma, dove ha giocato.
«Alla mia epoca c’era grande rivalità e certi ultrà bianconeri hanno detto che io non sono più un ex juventino. Io dico: se mi mostrate un solo articolo in cui, tolti Moggi e Giraudo, parlo male della Juve, do 1000 euro in beneficenza».
La sua amicizia con Platini?
«Eravamo solo due stranieri, totalmente diversi. Io parlicchiavo francese, le nostre mogli diventarono amiche. Michel ha subito un’ingiustizia alla Uefa, travolto dallo scandalo, lui è una persona onesta, brava, buona».
Chi vincerà il campionato?
«Sarà una lotta tra Milan, Inter, Napoli e Roma. Gasperini è uno davvero bravo. La Juve deve giocare un po’ meglio».
Dalle sconfitte si impara?
«Molto più che da una vittoria. Ricordo la finale di Coppa Campioni contro l’Amburgo. Purtroppo nel calcio non vince chi è più forte. Cinque minuti dopo la sconfitta Tardelli mi disse: ora dobbiamo vincere il campionato così torniamo in Coppa. Dopo che perdi vai a dormire e ripensi alla partita, la rivivi minuto per minuto. Dopo una vittoria ti addormenti come un neonato».
Le piace Gattuso, con quegli occhi pieni di vita e di rabbia antica?
«Sono un suo grande estimatore. Mi piacciono le persone vere, è uno normale che dice quello che pensa, ogni tanto sbaglia e dice sono fatto così. Non finge, non recita un personaggio».
L’Italia andrà ai Mondiali?
«Ve lo auguro con tutto il cuore, è un problema per i bambini, se lo mancate per la terza volta, quelli dai 6 ai 18 anni non potrebbero aver tifato per la Nazionale. Però rifletto sul fatto che quando gli azzurri giocano nei loro club hanno più tigna».
I giocatori oggi sono ricchi e viziati: un tempo era diverso?
«Intanto non esisteva la playstation. Io a Villar Perosa giocavo a scopone con Zoff, Furino, Tardelli e Paolo Rossi. Vivevamo insieme. Questi hanno le cuffie in testa e si isolano. Ma non li rimprovero».
Alla Coppa Davis invece le riserve hanno dato l’anima.
«Oh, sfonda una porta aperta. Cobolli è cresciuto a casa mia, e Santopadre, ex allenatore di Berrettini, è il marito di mia figlia Carolina. Alla finale mi è scappata qualche lacrima».
Sinner e Alcaraz?
«Sinner è un uomo bionico, una macchina da guerra, sai che alla fine vince lui. Alcaraz fa numeri incredibili, poi ogni tanto sbaglia. Nadal ha detto una cosa giusta: non avrebbe vinto con loro due perché lui si preparava il colpo vincente, con questi non puoi, non hai tempo perché ti scagliano un armadio addosso».
Lei gioca a tennis?
«Ora a padel. Mi vogliono battere tutti ma non ci riescono».