Corriere della Sera, 27 novembre 2025
Intervista a Gianna Fratta
Maestro o Maestra?
«Maestra, perché sono una donna».
Per Gianna Fratta l’opportunismo è uno sconosciuto. Nata a Erba, nel Comasco, cittadina del mondo con base a Firenze (dorme fuori casa 300 notti l’anno), in 52 anni di vita ha già spaccato più di un soffitto di cristallo. È stata la prima donna a dirigere i Berliner Symphoniker, la prima donna italiana a dirigere l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, la prima donna a dirigere il concerto di Natale in Senato. Basta chiacchierare un’ora con lei per capire come abbia fatto (leggere alla voce autodeterminazione). Ma non chiedetele del marito, Piero Pelù, sposato il 14 settembre del 2019: argomento off limits.
È vero che ha sette lauree?
«Ne ho sei: giurisprudenza, discipline musicali, pianoforte, composizione, musica corale e direzione di coro, direzione d’orchestra».
Giurisprudenza perché?
«I miei genitori ci tenevano, dopo la maturità scientifica. L’ho presa con una certa facilità e mi è molto utile per accedere ai fondi, scrivere i bandi, organizzare eventi...».
In Italia ci sono 14 enti lirici. Quanti diretti da una donna?
«Per adesso solo il Teatro Comunale di Bologna con Elisabetta Riva e la Fondazione Arena di Verona con Cecilia Gasdia, grandissima musicista, già soprano straordinario, che riveste sia il ruolo di sovrintendente che di direttrice artistica».
Sono le uniche donne con le competenze per farlo?
«Assolutamente no, anzi. Credo ci siano donne davvero bravissime: ma in molti ambiti, come quello artistico musicale, sono grandi assenti».
Perché, allora, non essere contenti della nomina di Beatrice Venezi a direttrice musicale della Fenice di Venezia?
«Nel caso della direzione musicale, che è un ruolo estremamente tecnico, sono le modalità della scelta che fanno discutere. L’orchestra non è stata coinvolta».
Il curriculum è sottodimensionato, come si dice, rispetto ai precedenti direttori?
«Senza dubbio. L’orchestra della Fenice è stata diretta da Maestri come Chung e Inbal. Il curriculum, però, è solo un indicatore: se nessuno ti dà la possibilità di metterti alla prova, non potrai mai fare esperienza per crearti un buon curriculum. Nel caso Venezi, però, l’orchestra non ha avuto la possibilità di mettere alla prova il suo talento prima della decisione. Inoltre, sono molto dispiaciuta per come la Maestra Venezi è stata appellata dai politici e dal sovrintendente stesso».
La destra la porta in palmo di mano, il sovrintendente Nicola Colabianchi l’ha scelta.
«È stata appellata in un modo che non descrive la sua professionalità. “Ragazza di 35 anni”, “Beatrice”. Non si sarebbe definito così Riccardo Muti, anche da giovane. Il sovrintendente ha poi rassicurato l’orchestra, in una lettera, che non sarà lei ad inaugurare la stagione prossima. E chi dovrebbe farlo, se non la direttrice musicale? In ogni caso, bisognerebbe chiamarla Maestra».
Lei si fa chiamare Maestro.
«È una scelta arbitraria, che non segue le regole della grammatica. Ci vuole consapevolezza da parte delle donne anche nella scelta delle parole: nei mestieri apicali ci siamo anche noi e quindi possiamo usare il femminile».
Ha parlato di occasioni che si danno e che si ricevono. Chi le diede l’occasione di dirigere i Berliner Symphoniker?
«Tutta la mia attività direttoriale è molto fondata sulle opportunità che mi hanno dato i colleghi direttori. In quel caso a invitarmi era stato il loro direttore musicale, Lior Shambadal, dopo avermi visto dirigere a una masterclass. È successo così anche con l’Orchestra sinfonica di Macao: mi aveva chiamata Lü Jia».
Con quale emozione ricorda la prima volta a Berlino?
«Non avevo ancora 30 anni. Sentivo dietro la schiena le goccioline di sudore. Ero molto tesa, dirigevo a memoria. Mi avevano detto che se non fossi piaciuta ai professori d’orchestra, qualcuno avrebbe bussato nel camerino alla prima pausa. Così, quando sentii bussare, pensai al peggio. E invece mi stavano offrendo un caffè».
Preferisce dirigere l’opera o la sinfonica?
«Dipende, preferisco parlare di repertori. Tra un’opera di Puccini e una sinfonia di Haydn, preferisco Puccini. Tra una grande sinfonia di Mahler e un intermezzo del Settecento, preferisco Mahler».
Ha detto che non si può dirigere Beethoven senza aver mai letto Kant. Perché?
«Penso che il direttore e la direttrice d’orchestra siano un punto di riferimento intellettuale, non solo musicale. La scrittura di Beethoven è profondamente legata all’idealismo tedesco. Se non sai niente di Fichte, Schelling e Kant come puoi restituirlo durante l’esecuzione? Vale per tutti».
Come allena le braccia?
«I musicisti sono degli sportivi: una grande fetta della nostra vita è uguale a quella di Sinner. Ogni giorno davanti allo specchio cerco di usare le mani in modo indipendente. Uno sportivo usa il cronometro, io il metronomo».
Mai uno sgarro?
«Paganini diceva: se non suono un giorno me ne accorgo io, se non suono due se ne accorgono tutti. Da che sono bambina, saranno al massimo 40 i giorni trascorsi senza suonare, studiare una partitura, ascoltare un pezzo».
Neppure il giorno del suo matrimonio?
«È uno dei 40. Però quel giorno ho ballato moltissimo. Ballare è un altro modo di fare musica, perché per un direttore d’orchestra l’uso del corpo è fondamentale».
È stata 7 anni a Seul. Cosa faceva?
«Insegnavo in una università femminile coreana. Da lì andai a suonare e dirigere due volte anche in Corea del Nord. Stando in Oriente ti rendi conto che noi siamo molto europocentrici, purtroppo».
Perché purtroppo?
«Loro, come noi, hanno una grandissima cultura millenaria. Ma la differenza è che studiano benissimo la loro storia e anche la nostra, e con entrambi i bagagli culturali, in un mondo globalizzato, hanno opportunità planetarie».
Dove si è emozionata di più a dirigere?
«Al Senato, nel 2016. Mi emozionava che il presidente Piero Grasso avesse scelto per la prima volta una donna. Era un grande riconoscimento delle istituzioni al nostro cammino. E poi avevamo convocato i migliori studenti dei conservatori e il Coro delle Mani Bianche, composto da bambini con disabilità acustiche».
Ha diretto a Mosca e a Kiev.
«Sono andata a Kiev pochi giorni prima che la Russia invadesse il Paese. Edoardo Crisafulli, direttore dell’Istituto italiano di Cultura a Kiev, mi disse che se non me la sentivo avrebbe capito. Ma io avevo preso un impegno con la musica. Tutti i componenti della Filarmonica di Kiev, dopo, sono stati chiamati al fronte. Molti sono morti».
Cosa pensa dei divieti agli artisti, musicisti, sportivi russi? L’ultimo caso in Italia riguarda Gergiev.
«Lui è un direttore del regime. Fui d’accordo, nel caso specifico, con la decisione di non farlo esibire a Caserta. Mentre resto convinta che molti artisti russi non debbano pagare le colpe di Putin e non farli esibire aggiunge un’ulteriore punizione. Ricordiamo il caso di Anna Netrebko».
Chi è il direttore più grande di sempre?
«Ho un grandissimo amore per Leonard Bernstein: trovo sia l’incarnazione della musica. Ha suonato il pianoforte in modo eccelso, ha diretto benissimo, ha scritto musica profonda e ha fatto divulgazione musicale ad altissimi livelli».
Se la sua bacchetta fosse magica e potesse parlare per un’ora con un compositore, chi sceglierebbe?
«Penso Beethoven. Senza mecenati, senza padroni. E poi mi affascina sapere del suo rapporto con la sordità».
Il 29 novembre sarà a Cagliari al Festival Pazza Idea. Il tema sono gli esercizi di libertà. I suoi, quali sono?
«Questa intervista è un esercizio di libertà, perché ho detto cose che potrebbero nuocermi. Ma dobbiamo esercitarci sempre: dal rifiutare le scorciatoie e le raccomandazioni, a non rubare il posto a uno che lo merita più di te, a cambiare idraulico se non vuole farti la fattura».