Corriere della Sera, 27 novembre 2025
«Con Pojana faccio il razzista (e ho rischiato anche la rissa). Per Mel Gibson perdo 8 chili»
Scarmigliato ma in gran forma.
«E ti credo, son dimagrito più di sei chili. C’è una ragazza che mi allena,in palestra. Mi fa fare degli esercizi terrificanti; una fatica bestia. La cosa peggiore è che mi posso concedere solo una birretta ogni tanto, niente più aperitivi, niente patatine... non è umano».
Tutto per esigenza di scena?
«Esattamente, capelli e barba compresi».
Però è per una causa nobile. Sarà Gamaliele, che è un membro del Sinedrio, nel kolossal biblico di Mel Gibson, The Resurrection.
«Gamaliele si batte contro la persecuzione degli apostoli, è un personaggio positivo. Per essere lui dovevo perdere fra i 5 e gli 8 chili. Siccome sono oltre i sei, in pratica al momento sarei in mantenimento. Bevendo acqua... Le ricordo che sono veneto; questa dell’acqua forse è meglio se non la scrive».
Non soltanto veneto. Andrea Pennacchi è, come dice lui, «estremamente veneto». Classe 1969, è diventato adulto a pane e classici. Laureato in Lingue e letteratura straniere, perfezionamento in Antropologia culturale, dottorato in Filologia e inglese medievale; attore, drammaturgo, autore, regista teatrale e scrittore. Mel Gibson a parte, è in teatro con «Alieni in laguna»; è a Propaganda Live (su La 7) con il Pojana, il personaggio che gli ha dato la popolarità; è il viceispettore Antonio Monte nella terza stagione di Petra, l’ispettrice di polizia interpretata da Paola Cortellesi; è al cinema con Le città di pianura di Francesco Sossai. Ed è in libreria con il suo secondo giallo, Una foresta di scimmie (per Marsilio, appena uscito).
Will, che poi sarebbe il giovane William Shakespeare, in questo libro per la seconda volta si muove nell’Italia del Cinquecento e, assieme a una stravagante banda di compari, incontra i personaggi delle sue stesse opere.
«Il mio Will stavolta si trova davanti all’ebreo che non ha mai visto in Inghilterra, perché lì sono banditi dal Medioevo. Lo trova nel suo viaggio italiano, nel ghetto di Venezia. E, come fa Shakespeare con “Il mercante di Venezia”, anche Will parte dall’idea del diverso – cioè dell’ebreo usuraio, che è una specie di mostro e creatura cattivissima – per arrivare a un’altra conclusione. E cioè che sarà pure il cattivo ma è un essere umano; quindi ha rancori, paure, e motivazioni umane; è come me. E il mio Will impara perfino un po’ di dialetto veneto...».
Perché il titolo Una foresta di scimmie?
«È un passaggio bellissimo de “Il Mercante di Venezia”. Shylock l’ebreo scopre che sua figlia è scappata e si è portata via i gioielli, compreso l’anello che lui aveva donato a Leah, la sua adorata moglie morta. Tu pensi: ecco, l’ebreo soffre più per i gioielli perduti che per la lontananza di sua figlia. E invece no: lui viene a sapere che sua figlia ha barattato l’anello per una scimmia e mi spezza il cuore che Shylock l’usuraio, l’umano, dica che no, lui l’anello di Leah non l’avrebbe barattato nemmeno per una foresta di scimmie».
Almeno stavolta i luoghi di Shakespeare e di Will coincidono.
«Non volevo inimicarmi i veneziani e ho portato Will a Venezia, dov’era il Mercante di Shakespeare. Anche perché da lì Will sta cercando un passaggio in nave per tornare a Londra».
L’altra volta, con «Se la rosa non avesse il suo nome», aveva trascinato Will nel mezzo della guerra fra Montecchi e Capuleti e aveva ambientato Giulietta e Romeo a Padova! Chissà se i veronesi gliel’hanno perdonata...
«Forse li ho fatti incazzare. Ma neanche tanto, sa... Avevamo presentato quel libro da loro ed era andata benissimo».
Non teme che con «Una foresta di scimmie» qualcuno fraintenda le parole sulla figura dell’ebreo Shyloch?
«Guardi, questo libro magari non sarà per grandi intellettuali però di sicuro non è scritto per i cretini, perciò se un cretino che ci vede antisemitismo, razzismo o chissà che altro non lo prende, per me va bene. La mia ambizione è che la gente si goda la storia, non ambisco a diventare Umberto Eco. E comunque: le ingiustizie del presente in nessun modo cancellano le ingiustizie del passato, quindi non è facendo negazionismo dei ghetti e dell’olocausto che rendiamo giustizia ai problemi contemporanei. In questo caso a maggior ragione, perché Shakespeare usava un ebreo fittizio, mai visto».
Il Pojana, il suo personaggio più celebre, è l’imprenditore veneto che ne ha per tutti.
«È sempre incazzato, ma non prende per il culo nessuno. È razzista e incattivito, ma meno di quanto sembri. Io gli voglio un gran bene. Faccio parlare il Pojana che è dentro di noi. Ri-specchia moltissimi imprenditori veneti che dicono cose terrificanti sui terroni e i neri ma poi danno i soldi ai poveri, fanno volontariato e guai a toccare il loro operaio Mohammed».
C’è qualcuno che la prende sul serio riguardo ai «terroni» e ai «negri»?
«Quando il Pojana è nel contesto di Propaganda Live è tutto molto chiaro. Ma poi capita che si sgretoli il contesto con il sistema delle pillole, cioè dei pezzetti dei monologhi che finiscono sul Web. Vedo commenti di gente che dice “bravo, hai ragione” senza capire che è satira. L’altro giorno si è fermato uno in moto che cercava rissa perché credeva che io fossi davvero razzista. Questo mi fa male perché mi sembra di aver sbagliato qualcosa».
Parliamo del suo amore smisurato per Shakespeare. Cominciò tutto da una lezione all’università: un colpo di fulmine.
«Vero. Diciamo che fino all’adolescenza, malgrado gli sforzi di mio padre tipografo che si ostinava a portarmi a casa libri, io ero una zucchina, leggevo quasi niente. Ogni tanto mi appassionavo a Conan il barbaro, ma di nascosto dai compagni... A casa mia erano comunisti, frequentavo ambienti che non avrebbero apprezzato un personaggio del genere».
E poi? Qual è il passaggio fra tutto questo e l’entusiasmo per i classici?
«Ho incontrato i classici quando non sapevo che fossero classici. Leggevo Omero e pensavo: però, bello, quanti morti... pare Conan il barbaro! I classici sanno come entrare nella vita della gente e come rimanerci. Pensi che ho portato l’Odissea in carcere e ho notato che tutti i detenuti la conoscevano. Ero stupefatto, ma ho scoperto poi che non l’avevano letta; l’avevano imparata da una serie tv passata dall’Albania al Marocco. Molta di quella gente era arrivata in Italia sui barconi, sapeva che cos’è una tempesta in mare come quella dell’Odissea».
Nei suoi due gialli Will ha a che fare con la magia e con la musica...
«Io credo che la musica possa cambiare il modo di vedere il mondo. Lei pensi a una scena famosa di qualunque film e cambi la musica di sottofondo. Cambia tutto. Per quel che riguarda la magia le dico che ne sono affascinato. Scienza, magia e religione prima andavano assieme. Poi la religione si è separata dalle altre due che nel Cinquecento di Will erano ancora parenti. Dopo è arrivato l’Illuminismo e ha fatto crescere molto la scienza. Grazie, Illuminismo, per le medicine e il progresso scientifico: ti siamo tutti grati. Però nascondere la magia e non riflettere su ciò che occupava nell’uomo, ha lasciato in sospeso un sacco di cose. con il risultato che siamo tutti illuministi finché è giorno, poi arriva il buio, sentiamo una cosa che scricchiola in cucina e non siamo più tanto illuministi».
Quindi lei è superstizioso?
«Ovvio».
Ha raccontato in più occasioni del suo brevetto da pilota. Davvero avrebbe voluto pilotare un cacciabombardiere?
«Ma certo! Un ricognitore Fiat G91, per la precisione. C’è stato un tempo in cui ho sognato di fare il pilota ma poi ho conosciuto il teatro e addio ricognitore. Non nego che i caccia siano oggetti bellissimi, a dimostrazione del fatto che a volte la creatività umana si esprime al meglio nelle macchine di distruzione. In un caccia io vedo Ares, il dio della guerra che non aveva templi ma oggetti, come le spade».
Se Andrea Pennacchi non fosse chi è oggi...
«Potrebbe essere il gestore di un pub».
Con quali parole definirebbe un veneto?
«Per citare il grande governatore Zaia: veneto è chi veneto fa. Miguel Gobbo Diaz, per esempio: è dominicano, pelle scura, ma è veneto».
A proposito di Zaia: ha visto il suo spot elettorale con il leoncino?
Ride. «Ma che brutto è quel filmato? Non si può guardare. Appena l’ho visto gli ho mandato un messaggio: Luca, anca ti con st’inteligensa artificial! Quel leon el par el gato de Ciòsa».
El gato de Ciòsa?
«Ciòsa, Chioggia. Lì il simbolo della città è un leoncino alato che i veneziani chiamano con spregio gatto. Vuoi mettere quel gatto con il leone di San Marco simbolo di Venezia e della Serenissima? Che poi: sono i chioggiotti a non aver mai sopportato il dominio veneziano...»
Lei crede in Dio?
«Diciamo che mi dà forza il pensiero che ci sia qualcosa di più grande oltre noi, qui. Una rete più ampia. Anche se i miei erano comunisti (mio padre era un partigiano finito in un campo di concentramento) in Veneto è impossibile non credere a certe cose. Io sono battezzato per la forza ricattatoria delle nonne: “Se non lo battezzi non entri più in casa mia!”. Ricordo da ragazzo quando ho chiesto per la prima volta il permesso di andare alla messa di Natale. Mi hanno detto: va bene, vai. Quando sono rientrato mia madre piangeva sul divano e diceva a mio padre: “L’abbiamo perso...”. Era lei la vera attrice di teatro. Tutta materia per il mio analista».
Analista?
«Sì. Io trovo che ci sia una logica nell’andare da un analista, che è la stessa dei caccia quando piloti: ci vuole qualcuno che fa il punto della navigazione, che ti dica non andare qui, non ti avvicinare a questa zona... è rassicurante».
Mai avuto paura di morire?
«Con il Covid ci sono andato molto vicino. Ricovero il 2 gennaio 2021: osservazione, semintensiva e intensiva. Intubandomi il dottore mi disse: se lei fosse mio fratello farei lo stesso e io pensavo: “Speriamo che abbia un buon rapporto con il fratello”. Comunque no, non ho paura della morte, perché ho il vago sentore che, appunto, ci sia qualcosa di più».