Corriere della Sera, 27 novembre 2025
«Il ritorno alla terra e la brace nei letti. Anche mio padre ci fece vivere così»
Domenica scorsa si sono spenti i riflettori sulla Biennale di Architettura di Venezia – Intelligens. Natural. Artificial. Collective. – che ha avuto un forte successo di pubblico affrontando il tema di una maggiore integrazione tra architettura e natura. Chiusi i grandi battenti dell’Arsenale, ho finalmente potuto tirare un respiro di sollievo e scartabellare tra le notizie di giornale trascurate nell’ultima settimana. Tra queste, una ha attirato la mia attenzione: quella che i media hanno soprannominato «la storia della famiglia nel bosco», una coppia anglo-australiana alla quale la magistratura ha sottratto i figli a causa delle condizioni di vita neo-rurali nei boschi vicino a Chieti, educazione fai-da-te inclusa. Vorrei quindi raccontare la mia esperienza di ragazzino cresciuto «nel bosco» e spiegare perché oggi mi schiero dalla parte dei genitori. Ma iniziamo con una premessa. Non si tratta di una presa di posizione politica. Non si tratta nemmeno di una disquisizione letterario-filosofica, sebbene, vivendo in Massachusetts, sia stato più volte in pellegrinaggio a Concord dove sorge la «capanna» in cui Henry David Thoreau scrisse il suo bellissimo Walden, ovvero Vita nei boschi. Si tratta semplicemente di una riflessione personale.
Mio padre, dopo aver conseguito un PhD negli Stati Uniti ed essere diventato uno dei più giovani professori ordinari d’Italia presso il Politecnico di Torino con una cattedra di geofisica applicata, decise di abbandonare la carriera accademica per – come diceva lui – «tornare alla terra». Fu uno dei primi contadini biologici in Italia, quando quella categoria assomigliava a una specie di setta, capeggiata da una certa signora Gabualdi del celebre negozio Girasole di via Vincenzo Monti a Milano. Nel nostro caso, quindi, non si trattava dei boschi del centro Italia, ma delle colline del Monferrato negli anni Ottanta. Tuttavia, le condizioni di vita erano ugualmente pre-industriali o, forse, pre-belliche. Niente riscaldamento centralizzato. Cucina prevalentemente a legna. Una vecchia vasca da bagno con un minuscolo boiler. Letto scaldato dalle braci, soprattutto nelle notti d’inverno quando i vetri della camera da letto si ricoprivano di ricami di ghiaccio. E soprattutto, nessuna televisione, ma solo una vecchia radio Grundig che gracchiava in continuazione.
Questi e molti altri dettagli sembrano accomunare la mia famiglia a quella basata in Abruzzo e finita sulle prime pagine dei giornali questa settimana. Ma c’erano anche delle belle differenze. Mia sorella e io eravamo stati vaccinati, sebbene con riluttanza. Ed è pur vero che in alcuni anni alternavamo la vita neo-rurale con quella alto-borghese in una grande città del Nord. Infine, anche se l’educazione parentale era stata molte volte presa in considerazione dai nostri genitori, alla fine venimmo iscritti alla scuola dell’obbligo. Ma quella stessa scuola non veniva presa troppo sul serio, e ci veniva ricordato spesso che era un «servizio», secondo le parole del sacerdote filosofo Ivan Illich, guru del Sessantotto. Ricordo ancora la faccia sconvolta di una maestra di fronte a una giustificazione firmata da mio padre, che motivava l’assenza per il fatto che «la mucca aveva partorito».
Sono convinto che quegli anni siano stati formativi. Non perché esenti da difficoltà, anzi. Non era semplice commentare le notizie televisive con i compagni di scuola quando i tuoi media trasmettevano notizie aliene, a cavallo tra Radio 3 e la BBC. E non era facile, nei primi anni dell’adolescenza, decifrare i segnali di status e affiliazione e capire dove i soggetti intorno si posizionassero in società. Ricordo ancora una delle eleganti signore della «Milano bene», venuta da noi per acquistare chissà quale prodotto biologico: vedendo me e mia sorella in qualche straccio infangato, ci chiese se andassimo per caso a scuola. O l’espressione sconvolta dell’impiegato statale che stava scrupolosamente compilando i formulari di un censimento e che, trovando mio padre nei campi mentre zappava, gli chiese come scrivere PhD, dottorato.
Insomma, quando cresci così, non sai bene a quale mondo appartieni. Ma poi quella difficoltà diventa un punto di forza. Impari che puoi stare bene ovunque, tra i boschi o nelle case di balconi, come scrisse Cesare Pavese. Non si tratta soltanto di rompere la cerchia del conformismo e dell’omologazione di pasoliniana memoria, seguendo la famosa categoria piemontese del «bastian cuntrari» (categoria alla quale credo mio padre appartenesse). Non si tratta nemmeno di prendere posizione sulla vecchia disputa su quale sia l’educazione ideale: se quella impartita dal nucleo primario della famiglia, come propugnato da Aristotele, o quella imposta dallo Stato, come suggerito da Platone, che arrivava fino all’idea di strappare i figli ai propri nuclei d’origine.
Si tratta invece, come abbiamo mostrato alla Biennale Architettura di quest’anno, di permettere a ciascuno di sperimentare modelli diversi. Che si tratti di città o di famiglie. Di stili di vita hyper-tech, super umani, neo-paleo o rurali di ritorno. E che si tratti di famiglie verdi nel bosco o famiglie multicolore in città. Si tratta di procedere per prova ed errore, proprio come in natura. Da Thoreau ai falansteri di Fourier, la storia delle idee è costellata di esperimenti che a volte hanno avuto un impatto dirompente sulla società. Purché non si arrechi danno ai nostri familiari o ad altri, ciascuno di essi dovrebbe essere non ostracizzato, ma incentivato. A partire da quello della famiglia chietina, che spero possa tornare presto a vivere nei propri boschi sulle parole dell’amato Thoreau: «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo le questioni essenziali della vita, per vedere se sarei stato capace di imparare quanto essa poteva insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto davvero».