Corriere della Sera, 27 novembre 2025
Tutti i «niet» di Mosca. Dall’invasione all’Alaska, la linea non è cambiata
Siamo dentro a un film già visto. In questi giorni, Vladimir Putin mantiene una sorta di distaccata ambiguità sulle sue intenzioni. È una posa che rappresenta da molti anni la sua strategia preferita, e in qualche modo gli consente di ergersi a giudice supremo di qualunque negoziato o trattativa. Ma anche a non dare credito alle parole del portavoce Dmitry Peskov, che parla di «modeste tendenze» verso una conclusione dell’attuale conflitto, il finale sembra già scritto. O pace russa, o avanti con la guerra. Con indice puntato verso l’Europa cattiva.
Non è certo una novità. Non c’è bisogno di tornare al «formato Normandia» del 2014 e agli accordi di Minsk, mai attuati per molte ragioni, tra le quali figurava come piccolo dettaglio il fatto che la Russia continuasse ad occupare territori che di diritto appartenevano all’Ucraina, oppure al diktat del dicembre 2021, quando Mosca propose un pacchetto di garanzie di sicurezza alla Nato, ma rifiutò la disponibilità dell’Alleanza a discutere sui singoli punti, pretendendo invece l’accettazione contemporanea di ogni impegno. Quasi quattro anni di guerra possono già insegnare qualcosa.
Pochi giorni dopo l’invasione, tra il 28 febbraio e il 7 marzo 2022 si svolgono tre incontri in Bielorussia. Volodymyr Zelensky propone colloqui diretti con Putin. Il Cremlino non darà mai una risposta. Nella primavera di quell’anno si svolgono i primi negoziati di Istanbul. L’Ucraina accetta la neutralità, lo status di Paese non allineato e non nucleare, mentre la Russia sembra dare il suo assenso a garanzie di sicurezza fornite dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. I punti ancora sul tavolo, come la limitazione delle forze armate ucraine, vengono rimandati a un incontro personale tra i due presidenti. Subito dopo il vertice, il Cremlino formula nuove richieste: il russo come seconda lingua ufficiale dell’Ucraina, revoca delle sanzioni reciproche, ritiro delle azioni legali nei tribunali internazionali, limitazione ad appena 85.000 soldati dell’esercito di Kiev. Poi, la strage di Bucha.
La Russia ha sempre accusato l’Occidente collettivo di aver silurato accordi già pronti per la firma. Lo farà molte altre volte ancora. Nel maggio del 2024, Putin cita il mandato presidenziale scaduto di Zelensky e le mancate elezioni, in un Paese sotto le sue bombe, come motivo del rifiuto di qualunque discussione. A giugno, poco prima della Conferenza internazionale sull’Ucraina in Svizzera, dove i rappresentanti di 92 Paesi discutono una «formula di pace», il presidente russo elenca le sue durissime condizioni preliminari. Sono ancora quelle di oggi.
La partita negoziale si riapre dopo la rielezione di Donald Trump. L’11 marzo del 2025 l’Ucraina accetta un armistizio di trenta giorni proposto dagli Usa. Il segretario di Stato Marco Rubio afferma che «la palla è nel campo russo». Due giorni dopo, Putin risponde che ci sono numerose questioni logistiche da risolvere prima che la Russia possa accettare un cessate il fuoco. È un rifiuto mascherato. La controproposta del Cremlino dello stop di un mese degli attacchi alle infrastrutture energetiche è seguita dall’ennesima notte di bombardamenti sull’Ucraina. La tregua pasquale proposta il 19 aprile dalla Russia viene letta come uno stratagemma per placare Trump. Entrambe le parti si accuseranno reciprocamente di averla violata.
E così si torna a Istanbul. Putin e Zelensky dovrebbero incontrarsi nella metropoli turca, e Trump suggerisce che anche lui sarebbe stato presente. Tuttavia, il presidente russo declina l’offerta, evocando il consueto problema del mandato scaduto del suo nemico. Le due delegazioni si trovano d’accordo solo su questioni umanitarie. Vladimir Medinsky, capo della squadra negoziale inviata dal Cremlino, ribadisce che la Russia è pronta a combattere la guerra per tutti gli anni necessari a raggiungere i suoi obiettivi. Il 19 maggio, Putin dichiara che l’essenziale per la Russia è «l’eliminazione delle cause fondamentali» della crisi e il raggiungimento «di tutti gli obiettivi dell’Operazione militare speciale». L’ex presidente Dmitry Medvedev scrive su Telegram che «i colloqui di Istanbul servono per garantire la nostra rapida vittoria e la completa distruzione del regime neonazista».
Quasi dal nulla, ad agosto viene annunciato lo storico incontro Putin-Trump in Alaska, che risveglia le speranze di pace. Nulla di fatto. Un nuovo summit «decisivo» da tenersi a Budapest, proposto il 16 ottobre dagli Usa, viene annullato dopo pochi giorni. La stessa Casa Bianca riconosce che il problema sono le rivendicazioni massimaliste del Cremlino. Ma il primo vertice tra i due presidenti ha invece prodotto qualcosa. Forse, delle promesse reciproche. Perché la Russia continua ad appellarsi allo «spirito di Anchorage». Qualunque sia il significato di questa frase.