Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  novembre 26 Mercoledì calendario

Il Novecento di Corrado Augias: “Un secolo diviso in due, sul filo della memoria”

Ricordi personali che s’intrecciano con la Storia, gli eventi che ci legano ripercorsi da un testimone. La memoria condivisa diventa spettacolo, un viaggio nel passato che aiuta a capire a che punto siamo arrivati: Corrado Augias si racconta con Il mio Novecento, regia di Andrea Zaccheo, in scena il 29 novembre all’Auditorium Parco della Musica a Roma e l’8 gennaio al Teatro Arcimboldi di Milano. Vita ricca di incontri, grande viaggiatore, Augias, 90 anni, giornalista, scrittore, conduttore e autore televisivo, drammaturgo, riannoda il filo dei ricordi. Con lui sul palcoscenico Massimiliano Pace al pianoforte e la cantante Luciana Di Bella.
Com’è nato il progetto?
«Parlando con alcuni amici di Milano, con il mio agente letterario Marco Vigevani. Gli raccontavo della mia vita, quasi secolare, i fatti, i piccoli aneddoti. Mi ha detto: “Ma questo è uno spettacolo”. L’idea è nata dal confronto; abbiamo montato un monologo che comincia dal 1944, da quando gli americani arrivano a Roma. Poi, però, faccio alcuni passi indietro, per recuperare l’inizio, drammaticissimo, del Novecento con la Prima guerra mondiale. E si va avanti per tappe importanti: gli anni del Boom, il ‘68, il terrorismo, il rapimento di Moro nel ’78, Tangentopoli nel ‘92, la discesa in campo di Berlusconi nel ‘94 e la fine del secolo».
Scegliere non deve essere stato facile. Questo “Come eravamo” com’è idealmente diviso?
«La sintesi è che quel secolo, come temo avverrà anche per il ventunesimo, si divide in due parti: una prima, tremenda, perché fino al 1945 il secolo ha vissuto guerre e stermini, pensi alla Shoah. E una seconda, in cui abbiamo vissuto cinquanta anni di pace e la costruzione di uno stato sociale per cui anche noi italiani – che siamo arrivati con il fiato corto – abbiamo goduto di una serie di riforme fondamentali».
Le vogliamo ricordare?
«Lo statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, l’abolizione del diritto d’onore. Sono riforme che ci hanno messo al passo con i Paesi più avanzati, oltre alla costruzione di un welfare state che ha retto fino all’altro ieri. E che adesso barcolla».
In che modo la grande Storia si intreccia con quella del cittadino Corrado Augias?
«Tutto per me nasce dalla scoperta della cultura. Sono uscito dal liceo con un’idea generica, la cultura non era al centro della mia vita. A farmela scoprire furono i convegni degli amici del Mondo, dove ammiravo un giovane che si presentava come economista molto brillante, si capiva tutto quello che diceva: si chiamava Eugenio Scalfari. Mai avrei potuto immaginare, mentre lo ascoltavo rapito, che avrei lavorato con lui. Ripenso alla meravigliosa avventura dell’Espresso, quello grande a lenzuolo, poi quello piccolo. Quindi ho seguito Eugenio a Repubblica».
Cosa significa il presente che dimentica il Novecento?
«Il presente è terribile perché noi, ma molti non lo sanno, stiamo vivendo una rivoluzione travolgente per la forma di novità tremende – o promettenti – che ci stanno investendo: il clima, le grandi migrazioni, l’avvento di nuove potenze, la Cina. Alterano un equilibro che dopo il ‘45 sembrava consolidato».
Cinquant’anni fa è stato corrispondente da New York, oggi come vede gli Stati Uniti?
«La rivoluzione di cui parlavamo coinvolge in modo profondo l’America; da quella grande democrazia che era, con Trump è diventata quella che è. Tutti i cambiamenti a cui stiamo assistendo danno un risultato complessivo che è la paura: la gente spaventata chiede un salvatore. Questo spiega la grande fuga verso destra, che promette il salvamento».
Pensa che il Novecento sia vittima del populismo?
«È una delle risultanti politiche».
Il film della sua vita?
«La dolce vita di Federico Fellini, un capolavoro».
La canzone?
«Sicuramente They can’t take that away from me di George Gershwin».
Il libro?
«Oddio, come faccio a sceglierne uno? È impossibile. Sono tanti, troppi. Vivo tra i libri, sono la mia vera professione».
Il programma televisivo?
«Quelli della notte di Renzo Arbore, perché era un programma di una felicità combinatoria, che andava al di là dei meriti di ognuno: il totale era superiore alla somma dei singoli talenti».
Conduce su La7 “La Torre di Babele”, trasmissione di approfondimento da servizio pubblico che il lunedì sera ha spettatori fedeli e ha conquistato i giovani. Che effetto le fa?
«Mi riempie di gioia. Facciamo puntate scegliendo argomenti che nessuno affronta, parlando anche di etica, teologia. Una grande intuizione del direttore de La7 Andrea Salerno, che mi disse: “Tu fai quello che vuoi, anche una lezione universitaria”. Una sfida, vista l’offerta televisiva. Invece ha incontrato un pubblico curioso, che va dalle 800 alle 900 mila persone».
Come vede il futuro?
«Un uomo come me, ormai anziano, anzi, direi molto vecchio, il futuro non lo vede proprio. Ci sono troppe cose dalle quali mi sento lontano».