Corriere della Sera, 26 novembre 2025
Luigi Albertini: Addio, «Corriere»
Benito Mussolini nell’autunno del 1925 era ormai il padrone d’Italia. Con l’avallo colpevole del re Vittorio Emanuele III, aveva superato la crisi causata dal delitto Matteotti e ridotto all’impotenza le opposizioni attraverso una brutale stretta repressiva. Ma c’era ancora a Milano, in via Solferino, un nemico con cui regolare i conti: Luigi Albertini.
Lo ricorda Simona Colarizi, autrice del volume sul periodo 1900-1925 della Storia del «Corriere della Sera» edita dalla Fondazione Corriere: «La lettura dei giornali era per Mussolini un rito mattutino che il quotidiano milanese regolarmente gli rovinava, peggiorando il suo umore. Lo viveva come una sorta di spina nel fianco. Esercitava costanti pressioni sugli industriali perché non acquistassero pubblicità sul “Corriere” guidato da Luigi Albertini e da suo fratello Alberto, ma soprattutto insisteva con i principali proprietari, i fratelli Crespi, affinché i suoi ostinati avversari fossero estromessi da via Solferino».
Cento anni fa l’esito agognato dal Duce fu raggiunto: il 28 novembre 1925 apparve sul “Corriere” l’ultimo amaro articolo di Luigi Albertini, intitolato Commiato, con una postilla di Alberto, che aveva assunto formalmente la carica di direttore nel 1921. Si consumò così l’addio di un giornalista che, a partire dal 1900, aveva fatto del quotidiano da lui diretto il primo d’Italia, moltiplicando le copie diffuse (da circa 60 mila a oltre mezzo milione) e conquistando un notevole prestigio a livello internazionale.
Era l’ultimo atto di uno scontro cominciato da circa tre anni, spiega Pierluigi Allotti, coautore con Raffaele Liucci del volume Il «Corriere della Sera» (il Mulino, 2021). «Già nel 1923, in seguito alle polemiche con il fascismo al potere, c’era stato un tentativo di mettere fuori gioco gli Albertini, che possedevano una quota rilevante dell’azienda. I fratelli Crespi, diversamente dal padre Benigno, non esitavano a intromettersi nella conduzione del giornale. Poi nel 1925 fu trovato un cavillo legale: l’atto di proroga della società editrice, siglato alla fine del 1919 per dieci anni, non era stato registrato. E tale inadempienza formale fornì l’appiglio ai Crespi per sciogliere il patto e liquidare gli Albertini, ai quali dovettero comunque versare un’ingente somma di denaro».
Con loro se ne andò una parte rilevante dei redattori: figure di spicco come Mario Borsa, Ettore Janni e Guglielmo Emanuel, destinati a dirigere in seguito il “Corriere”, e un futuro capo del governo, Ferruccio Parri. «Albertini – sottolinea Colarizi – era un formidabile scopritore di talenti e aveva allestito una squadra a cui si deve l’avvento del giornalismo moderno in Italia. Molti di loro non accettarono di essere normalizzati dal regime». Si era comportata diversamente però, nota Allotti, la più brillante penna del “Corriere” albertiniano, Luigi Barzini: «I suoi reportage esclusivi sulla guerra russo-giapponese del 1904-05 avevano fatto epoca, procurandogli una grande fama a livello mondiale. Era divenuto l’inviato principe della stampa italiana. Ma poi nel 1921 aveva lasciato via Solferino e si era trasferito negli Stati Uniti, da dove si era schierato nettamente a favore di Mussolini».
Del resto anche Albertini aveva inizialmente guardato con indulgenza alle violenze squadriste. «In lui – nota Allotti – prevale a lungo l’ostilità verso i socialisti che vogliono imitare la Russia bolscevica, per cui giustifica l’azione delle camicie nere. Liberale legato ai valori della Destra storica, non comprende in quella fase la natura liberticida del fascismo. Ancora nell’agosto 1922 auspica l’ingresso di Mussolini al governo, sperando in un assorbimento dello squadrismo nell’alveo della legalità. Perfino dopo la marcia su Roma, l’atteggiamento del “Corriere” non è in un primo momento di opposizione al governo, ma di critica collaborativa».
Colarizi però ritiene che l’avvento al potere di Mussolini abbia segnato una svolta decisiva: «Non dimentichiamo che a cavallo tra il 1921 e il 1922 Albertini era stato a Washington, per rappresentare l’Italia alla conferenza internazionale sul disarmo navale. Forse gli era sfuggito un po’ il polso della situazione. Ma quando il “Corriere” è costretto a non uscire il 29 ottobre 1922, al culmine della marcia su Roma, per via delle minacce degli squadristi, scatta in lui un forte rigetto di quanto sta accadendo. Per Albertini lo Stato non può abdicare di fronte al capo di un partito armato. E il suo antifascismo diventa risoluto dopo il decreto contro la libertà di stampa che Mussolini emana nell’estate del 1923, pur senza conferirgli vigore immediato. Poi il contrasto si fa durissimo nel 1924, in seguito al delitto Matteotti».
D’altronde va ricordato che Albertini nel 1920, mentre era in corso l’occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori, aveva ipotizzato di chiamare al governo i socialisti. «Dubito però – osserva Colarizi – che in lui ci fosse un disegno d’inserimento del Psi nel sistema. Mi pare piuttosto che sia stato preso da un moto di rabbia nei riguardi dei socialisti e della loro demagogia. Albertini vuole sfidarli: che vadano al governo e vedranno com’è difficile gestire un Paese».
In precedenza il “Corriere”, precisa Allotti, non aveva affatto condiviso le aperture del leader liberale Giovanni Giolitti al movimento operaio: «Pareva ad Albertini che la neutralità adottata dai governi dell’epoca nei riguardi dei conflitti sociali, con il rifiuto di reprimere gli scioperi, fosse un segno di debolezza. Nelle sue stesse memorie, scritte dopo l’estromissione dal “Corriere”, resta critico verso il progetto d’inserimento delle masse nelle istituzioni perseguito da Giolitti. Ma bisogna aggiungere che l’avversione di Albertini allo statista piemontese derivava anche dai metodi spregiudicati che quel leader usava per assicurarsi una stabile maggioranza alla Camera dei deputati, attraverso la manipolazione del voto da parte dei prefetti, soprattutto nel Mezzogiorno. In questo modo, secondo il direttore del “Corriere”, si alimentava la corruzione e si sviliva il sistema rappresentativo, ridotto a una sorta di dittatura parlamentare personale di Giolitti, che non a caso negli stessi anni veniva bollato come “ministro della mala vita” dal meridionalista Gaetano Salvemini».
L’opposizione a Giolitti è un aspetto della vocazione politica tipica del “Corriere” di Albertini. Si è parlato a tal proposito di un «giornale partito», di cui Colarizi definisce i caratteri: «L’obiettivo è educare una nuova classe dirigente liberale. L’Italia nei primi anni del XX secolo conosce una forte crescita economica e civile, con lo sviluppo di un vasto ceto medio scolarizzato che è il pubblico dei lettori al quale il “Corriere” si rivolge con l’intento di promuovere la modernizzazione del Paese anche sul terreno politico. Solo che qui si crea un equivoco spaventoso, perché il personaggio principale a cui si affida Albertini per stimolare il necessario rinnovamento culturale è Gabriele D’Annunzio, che furoreggia con la sua retorica estetizzante sul quotidiano di via Solferino».
In effetti la contraddizione appare evidente soprattutto nel periodo conclusivo della Prima guerra mondiale. Il “Corriere”, che ha reclamato l’intervento dell’Italia nel conflitto, si batte per il principio dell’autodecisione dei popoli sostenuto dal presidente americano Woodrow Wilson, contrasta gli eccessi del nazionalismo espansionista e polemizza a tal proposito con il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, ma al tempo stesso pubblica il componimento con cui d’Annunzio inventa il mito della «vittoria mutilata», poi agitato dai fascisti.
«Il poeta abruzzese – nota Colarizi – gode di un’enorme popolarità nell’Italia d’inizio secolo e per certi versi incanta anche Albertini, benché per indole e costumi i due siano lontanissimi. D’Annunzio poi fa vendere il giornale: basta che compaia in pagina una sua poesia, magari piuttosto mal riuscita, per far impennare la tiratura del “Corriere”. E il direttore è molto sensibile all’aspetto economico, anche per le ristrettezze che ha dovuto affrontare in gioventù a causa del fallimento della banca gestita dal padre ad Ancona, sua città di origine. Giornalista attentissimo alle notizie, Albertini dimostra inoltre spiccate doti d’imprenditore: cura l’adozione di nuovi macchinari tipografici; lancia continue iniziative editoriali, come la “Domenica del Corriere”, la “Lettura”, il “Corriere dei Piccoli”; fa costruire il palazzo di via Solferino, inaugurato nel 1904. Si possono riscontrare elementi di contraddizione tra le sue scelte manageriali e la sua posizione politica, ma in fondo non c’è mai un’assoluta linearità razionale nel comportamento umano. Tutti noi siamo condizionati da diversi fattori che possono entrare in conflitto».
Anche nel modo di gestire l’informazione, aggiunge Allotti, non sempre Albertini si dimostra coerente: «Rivendica la sua fedeltà alla missione che il fondatore del “Corriere”, Eugenio Torelli Viollier, aveva fissato per il giornale: dare sempre tutte le notizie, anche quelle sgradite e scomode per la linea politica della direzione. Quando Barzini nel 1901 descrive le condizioni pessime dei militari italiani inviati in Cina per via della rivolta scoppiata contro la presenza occidentale, suscitando un putiferio, Albertini difende il diritto del “Corriere” di riferire le cose come stanno, senza edulcorarle per carità di patria. Ma poi, durante l’impresa di Libia e ancora di più nel corso della Prima guerra mondiale, il quotidiano di via Solferino non esita a occultare gli aspetti più orribili di quanto accade al fronte, per non deprimere lo spirito nazionale. A un certo punto nel 1918 Albertini protesta con il governo di Vittorio Emanuele Orlando che ha diffuso di sua iniziativa una notizia, tramite l’agenzia di stampa Stefani, senza consultare i maggiori giornali. Il direttore del “Corriere” vuole essere lui a decidere che cosa scrivere e come farlo, in conformità alla missione di orientamento dell’opinione pubblica che si è proposto di svolgere».